Eroi dal grande cuore:
storie dal fronte
La cardiomegalia è una condizione patologica per cui il più importante muscolo del nostro corpo assume dimensioni anormali ingrossandosi. Eppure esistono e sono esistite persone che grazie al loro cuore grande, abnorme forse, hanno dimostrato che l’amore non ha colore, non ha divisa né nazionalità.
Penso a Leonardo Graziano, che era solo un ragazzo di Ariano Irpino, in provincia di Foggia e che, evidentemente, incontrò il suo angelo custode nei panni di un soldato tedesco. Lui, teoricamente un nemico, impietosito, lo liberò dallo stato di prigionia prima che venisse deportato dalla Francia verso uno dei tanti campi di concentramento in cui finirono gli I.M.I. (Internati Militari Italiani, ovvero 600.000 ragazzi che, con la fuga del vile Vittorio Emanuele III, furono lasciati in balia della barbarie nazista). Leonardo vagò per giorni e, giunto al confine, scoprì che per oltrepassarlo, per tornare a casa, aveva bisogno di tanti soldi, tanti quanti lui non ne aveva.
E forse fu buona sorte o forse solo un gioco del destino, ma è certo che quel ragazzo foggiano, che mai aveva giocato a carte nella sua vita, quella sera, alla sua prima partita a carte vinse 1000 Lire. Erano tanti soldi 1000 lire nel ’43, tanti da poter pagare per sé e per altri tre ragazzi una guida che li portasse oltre il confine, in territorio Italiano. Leonardo arrivò fino a Foggia, fin lì aiutato da un po’ di fortuna e dal cuore delle persone che gli davano qualcosa da mangiare o un posto per nascondersi. Non a Foggia, non nella sua città. Lì gli fu negato anche un bicchier d’acqua e lui di questo si ricordò sempre e lo raccontò alla sua splendida Ester, la sua nipotina dolcissima che, ancora adesso, non ha smesso di amarlo.
Di un vero e proprio eroe mi ha parlato Lucia Cannata, raccontandomi del papà di Palmina Cassarà. Natale Cassarà servì la patria nella gelida Russia e da lì fuggì insieme a tanti altri poveri ragazzi affamati, disperati ed infreddoliti. Natale fu uno dei fortunati che poté scappare a bordo di un camion e proprio durante quella fuga disperata si manifestò il suo superpotere. Quella degli italiani dalla Russia fu, lo sappiamo, una ritirata confusa e drammatica: mentre gli alpini morivano a migliaia sotto i colpi delle Katjuša, tentando di sfondare la sacca con la forza della disperazione più che con le armi che non avevano, molti altri morivano per il freddo gelido che entrava loro nelle vene e gli gelava anche l’anima. Ma uno, uno di loro, non morì certo quel giorno, non durante quella fuga. Natale, che era riuscito a salire su quel camioncino, non ebbe il cuore di lasciare morire quel ragazzo modicano che non aveva fatto in tempo a montare e lo strappò alla morte, trattenendolo a sé per oltre un’ora con la forza delle sue sole braccia. E quando Natale, molti anni dopo, andò a vivere insieme agli angeli, quel ragazzo, ormai non più ragazzo, andò a salutarlo per l’ultima volta, pianse per lui lacrime calde e raccontò questa storia, la storia di un eroe dal cuore grande, grandissimo.
Ed infine lasciate che vi racconti ancora una volta del mio amato prozio Saro che, durante un bombardamento sul San Michele del Carso, era riuscito a trovare un buco molto ben riparato nel quale nascondersi. Lì, quel povero ragazzo strappato alla campagna nella quale era cresciuto, era consapevole che avrebbe preso parte all’orrore del bombardamento, di corpi maciullati dalle bombe, di membra e arti e sangue che schizzavano dovunque. Sì, ne avrebbe preso parte, ma solo da spettatore al riparo com’era nel suo bel nascondiglio. E sarebbe rimasto lì se non avesse sentito il flebile pianto e la richiesta di aiuto di un ragazzo a pochi metri da lui: pochi metri sì, ma allo scoperto, sotto le bombe degli austriaci. Che fare? Quel povero commilitone non chiedeva che dell’acqua prima di rendere l’anima a Dio. Che fare, dunque? Lo zio Saro aveva un cuore grande e fece quello che fanno gli eroi, anche se non sanno di esserlo: strisciò fino a lui e con le dita gli fece gocciolare quel po’ d’acqua che aveva nella sua borraccia. Non avrebbe potuto far altro, nulla di più: il bombardamento iniziato poco prima aveva colpito la postazione nella quale serviva quel commilitone e gli aveva strappato via la mandibola. Non avrebbe potuto far altro Rosario per rendergli la morte meno dolorosa che fargli colare quelle poche gocce d’acqua dritto fino alla gola. Il ragazzo morì poco dopo e lo zio non fece in tempo ad arrivare al suo bel nascondiglio al riparo per accorgersi che gliel’avevano fregato! Cosa poteva aspettarsi? Era un così buon posto! E chissà se lo rinfacciò a quel commilitone che gliel’aveva sottratto, quando finalmente finì quella maledetta pioggia di morte. Ed ancora, chissà se il commilitone che aveva occupato quel buco ebbe il tempo di pensare a quanto fosse stato fortunato a trovare quel posto! Chissà infine cosa avrà avuto il tempo di pensare quel povero ragazzo che si credeva fortunato, quando qualcosa gli tranciò di netto la gola e fece schizzare via la sua testa.
Mi piace credere che non ebbe il tempo di pensare, che non s’accorse di nulla. E mi piace immaginare che fu quel gesto di pietà che salvò la vita all’artigliere Rosario Giannone Malavita, ventenne che era stato strappato ai suoi carrubi e ai suoi mandorli per scoprire con orrore nuovi terreni coltivati a bombe ed irrigati col sangue di centinaia di migliaia di poveri ragazzi come lui.