Sopporta, cuore mio...
“Τέτλαθι δή, κραδίη”,aveva detto tra sé e sé l'Odisseo appena giunto ad Itaca.
“Sopporta, cuore mio” era tutto ciò che aveva potuto dire a se stesso di fronte agli scempi dei Proci.
Ma quanto dolore può sopportare un cuore?
Eugenia Gianzini era poco più che ragazza quando il suo Antonio l'aveva lasciata da sola ad affrontare il mondo. Se n'era andato Antonio, un male incurabile se l'era portato via e lei si era ritrovata con tanti sogni, pochi soldi e 5 figli da crescere. In quel 1927 il più grande di loro, Andrea, aveva 14 anni appena. La piccola di casa Teresa, l'unica femminuccia, non ne aveva ancora compiuti tre.
Sopporta, cuore mio si sarà ripetuta Eugenia, sopporta.
Dal matrimonio con Antonio erano nati quattro figli maschi: loro avrebbero portato avanti la bottega da fabbro del padre e, in un modo o in un altro, ce l'avrebbero fatta.
Ed Eugenia probabilmente se lo ripeté ancora e ancora quando tutti e quattro i suoi figli furono chiamati a fare la guerra: Andrea, il più grande, impiegato sul fronte occidentale e poi, dopo l'8 settembre, lavoratore coatto dei tedeschi, Edoardo e Giuseppe in Russia, e Pietro – che in realtà si chiamava Mario - volontario in Africa.
Quando le persone mi raccontano le storie della loro famiglia, senza saperlo, mi regalano un'incredibile dose di intimità. Non lo sa ancora Attilio, il figlio di Giuseppe, ma facendomi leggere quella lettera di suo zio Edoardo mi ha portata per mano nel mondo dei suoi zii, in quello del suo papà. È un cavaliere Attilio, in senso metaforico e letterale. È stato un ufficiale di Cavalleria ed è un vero gentiluomo. Quando mi racconta della corrispondenza in tempo di guerra tra Andrea ed Edoardo, i suoi zii, l'uno in Francia l'altro in Russia, lo fa quasi con pudore.
Piero – come lo chiamano in famiglia -, quella testa calda che s'è arruolato nell'aviazione ed è partito volontario per 'Africa, ha perso la testa per un'africana e vuole sposarla! Lo scrive chiaramente Edoardo: “è sempre stato con una testa fatta a quel modo”. E lui, per quanto sia lontano un intero continente, gli ha scritto e gli ha fatto un bel discorsetto che, ne è certo, lo farà riflettere.
Edoardo in Russia era maniscalco del Reggimento di Artiglieria a cavallo. Suo fratello Giuseppe, il papà del mio amico Attilio, è addetto alla radio e il caso vuole che i due fratelli siano molto vicini tra di loro. Lo scoprono grazie ad un amico autiere che si occupava di portare i rifornimenti dai depositi ai vari reparti. Così riusciranno a vedersi, a ricostruire una piccola parte di famiglia, un pezzo di Cella Dati anche lì, a due passi dal Don.
Chissà Eugenia, sola in quella piccola cittadina in provincia di Cremona, cosa avrà pensato... Sopporta, cuore mio. Ne ha già conosciuto troppo di dolore: i suoi ragazzi torneranno da lei e da Gina, come chiamano Teresa in famiglia.
Sopporta, cuore mio.
L'11 dicembre del 1942 a Giuseppe è arrivato l'ordine direttamente dal suo capitano: smantellare tutto e spostarsi di 40 km a Nord-Nord Ovest. E Giuseppe non può far altro: credere, obbedire, combattere. Per chi poi? Per cosa? Loro non lo sapevano, non l'avevano capito cosa dovevano fare in Russia. Erano solo ragazzi, erano solo artigiani mandati in un paese straniero. Non erano che ragazzi di vent'anni mandati a far la guerra, a morire. Duecento trentamila in Russia, mezzo milione nel fronte greco-albanese e altrettanti in Africa.
Andrea, Edoardo, Giuseppe, Pietro, non sono che numeri tra centinaia di migliaia, soltanto “quattro unità” su tre milioni di combattenti. Ma per Eugenia sono tutto ciò che ha, tutta la sua vita. E allora Sopporta, cuore mio.
Sopporta, perché Giuseppe ha ricevuto l'ordine di scappare, anche se non lo sa ancora che sta scappando, e sicuramente lì a Gomel si incontreranno lui ed Edoardo e prenderanno la tradotta e arriveranno in Italia insieme. Ne è certo Giuseppe e quando vede i commilitoni di suo fratello che aveva conosciuto quando si erano incontrati, lo cerca, chiede di lui. Lo chiede a quel sergente che era stato così gentile, ma Edoardo non c'è. Era un maniscalco Edoardo e per questo era finito in fondo alla colonna: se ci fosse stato bisogno del suo intervento non si sarebbe rallentata la colonna in fuga. Invece la colonna è stata bombardata, spaccata a metà, ed Edoardo è rimasto indietro. Nessuno lo vedrà mai più, nessuno saprà mai più nulla di lui. Non gli servirà più quell'orologio che aveva chiesto che gli mandassero perché senza le campane non sapeva capire che ora fosse. Edoardo è disperso nelle neve di Russia in fondo a una colonna di artiglieri a cavallo in fuga dai carri armati russi, dai loro mortai, dalle loro artiglierie. Giuseppe vuole cercarlo, vuole trovarlo e portarlo con sé, ma quel sergente è chiaro: se torna indietro l'ammazzano come sicuramente hanno ammazzato suo fratello. È lì che comincia a capire Giuseppe, è un ripiegamento disperato, “stanno scappando esattamente come Napoleone”, come gli aveva detto quella maestra che aveva ospitato lui e alcuni suoi commilitoni durante la ritirata. È il caos, è l'inferno, ma è un inferno gelido, a quaranta gradi sotto zero, e i russi rincorrono e bombardano e i tedeschi... i tedeschi pensano solo a loro! Li avevano incontrati pochi giorni prima, giusto in tempo per farsi requisire radio e, soprattutto, i camion con cui stavano scappando. E allora a piedi per chilometri e chilometri, nella tormenta e tra la neve, con la morte nel cuore per quel fratello perduto e l'anima gelata dalla paura. È poco più di un ragazzo Giuseppe, come lo era suo fratello Edoardo, come lo erano gran parte degli oltre 200,000 morti di quella guerra maledetta.
I tedeschi: tronfi sbruffoni! Durante la fuga cercavano ristoro nelle isbe, solo un po' di tepore per qualche ora, giusto il tempo di riprendere le forze. Durante una di quelle pause erano entrati in tre in una di quelle povere case, e avevano trovato le donne sdraiate su pagliericci nella stalla e quei tedeschi nei loro letti, al caldo. Fucili alla mano li hanno cacciati: se qualcuno deve dormire nella stalla siano i tedeschi, non certo quelle donne!
E poi scappare e ancora scappare fino a Gomel, fino a quei treni che li avrebbero riportati a casa. Sono già dei disperati, sono attori protagonisti di un'immane follia e hanno appena iniziato a capire che quel freddo se lo porteranno nel cuore per tutta la vita. Alla stazione di Gomel, in attesa che arrivi ciò che rimane dell'ARMIR, Giuseppe è talmente disperato ed affamato che è pronto a tutto per procurarsi qualcosa da mangiare, foss'anche svuotare le latrine rischiando di vomitare quel poco che riusciva a ingurgitare, correndo il serio rischio di prendersi il tifo.
Tanti contrassero malattie durante quel viaggio di ritorno in quei treni bestiame nei quali potevano starci 8 cavalli e 16 uomini e invece c'erano stipati 40 soldati, ammassati l'uno sull'altro, a scambiarsi lacrime, sangue e malattie, pidocchi e cimici, preghiere e bestemmie.
L'ennesimo affronto sul Brennero, quando proibirono loro di farsi vedere dai civili: nessuno doveva sapere della disfatta, nessuno doveva vederli in quello stato, in contumacia come dei delinquenti.
Nel suo reggimento erano in 320, meno della metà di loro è tornata a casa. Si sono sempre ritrovati, ogni anno a settembre e si sono raccontati di quella guerra maledetta, forse si sono mostrati le fotografie delle loro innamorate della Russia. Anche Giuseppe ne ha una, la porta sempre con sé, ancora adesso, ottant'anni dopo. Sua moglie gliel'ha trovata, s'è arrabbiata, ma lui non ha mai smesso di tenerla nel portafogli.
Anche mio nonno Pietro conservava la foto della sua Maruska. Anche mia nonna s'era arrabbiata.
Eugenia ed Antonio Albertoni avevano messo su una bella famiglia nell'Italia del primo dopoguerra e dopo quattro maschi era finalmente arrivata Teresa.
Poi il cuore di Eugenia aveva preso a dare del tu al dolore, quando un tumore gli aveva portato via il suo Antonio e lei era rimasta sola con cinque bambini. Sopporta, cuore mio si sarà ripetuta. E poi tutti e quattro i suoi figli sono stati chiamati a fare la guerra: Andrea, il più grande, impiegato sul fronte occidentale e poi, dopo l'8 settembre, lavoratore coatto dei tedeschi, Edoardo e Giuseppe in Russia, e Pietro – che in realtà si chiama Mario - volontario in Africa.
Andrea è tornato soltanto a maggio del '45, magro come un chiodo dopo due anni di campo di concentramento nei pressi di Berlino. Sopporta, cuore mio. Pietro è tornato dall'Africa e probabilmente le parole di Edoardo sono servite, perché non s'è sposato con quella ragazza libica. Sopporta, cuore mio. Giuseppe è tornato dalla Russia con un carro bestiame. Lo terranno in contumacia per un mese, ma è vivo, e tornerà a casa dalla sua mamma. Sopporta, cuore mio.
Edoardo no, per Edoardo il cuore non può più sopportare.
Eugenia vestirà il nero del lutto per tutta la vita, aspettando quel suo figlio mai tornato dalla Russia. Eugenia, la mamma di Edoardo, smetterà di ridere, parlerà sempre meno, il suo cuore non sarà più in grado di sopportare il lungo addio col suo ragazzo disperso nella neve di Russia.
Anche Giuseppe, per anni, avrà chiesto al suo cuore di sopportare, di resistere, di dimenticare. Ma come si può dimenticare un fratello? Come si può lasciare un ragazzo di appena ventott’anni sotto i bombardamenti dei russi, sotto quei cingoli portatori di morte, alla mercé di vittime che si sono fatte carnefici? Sopporta, cuore mio si sarà ripetuto ogni volta che suo figlio Attilio gli avrà chiesto dell’Europa dell’est. Sopporta, cuore mio avrà detto guardando quei piccoli atlanti alla fine delle agendine di un tempo, ripercorrendo quei posti che ha conosciuto bene, quelle città distrutte dai bombardamenti, passando ancora con la mente lungo le rotaie affollate di ebrei alla ricerca di cibo. Sopporta, cuore mio è quel che non ha saputo più ripetere quando Attilio, il suo Cavaliere che ha continuato a cercare Edoardo, gli ha consegnato quella lettera del fratello mai arrivata a casa, dispersa tra milioni di lettere mai recapitate, segni di milioni di vite spezzate, di milioni di lacrime versate da mamme e papà, da figli e mogli e fidanzate. È datata 2 gennaio 1943, li rassicurava, diceva loro di star bene, di dormire in un letto da borghese e che a breve sarebbe tornato a casa. L’ha trovata Attilio nel luglio del 2019, mentre studiava il Foglio Matricolare dello zio Edoardo, quello zio perduto in Russia, a poche decine di km da Rossosch, quel fratello che Giuseppe voleva tornare indietro a riprendere, anche a costo della sua stessa vita.
E allora Sopporta, cuore mio: la lettera è arrivata a casa, Attilio l’ha fatta leggere al suo papà e forse insieme hanno pianto di commozione e di rabbia per quel frammento di cuore restituito ottant'anni dopo, per quel pezzo di vita che è finalmente tornato a casa dalla sua mamma e chissà, lassù in cielo, forse Eugenia ha sorriso per quei suoi due figli mandati in Russia a fare la guerra e adesso ritrovati.