Angela Mirabella: Peni niviri e fami ranni
Al primo bombardamento a Scicli, quando colpirono nella zona della chiesa del Collegio, loro erano a far frasche. Con quelle potevi accendere il forno e, soprattutto, scambiarle con un po’ di farina o con una pagnotta. Le persone scappavano come fossero formichine, chi con un materasso chi portando con sé una sedia o una coperta. Si nascosero nelle grotte, in quelle grotte sporche e umide, popolate da topi, a sinistra della salita di Santa Lucia. Almeno 120 famiglie presero un po’ di spazio, crearono muretti divisori e vissero per giorni insieme, tentando di salvar la vita, di sfuggire ai bombardamenti.
Finito il bombardamento la colpa di questo fu fatta ricadere su un povero ragazzo che avrebbe dovuto mettersi alla mitraglia contraerea. Lo ammazzarono, non prima di averlo spogliato di tutti i suoi beni, “compreso l’orologio” sottolinea la signora Angela mentre rivive quei fatti.
Al secondo bombardamento su Scicli, quello che colpì la zona della stazione, i soldati erano impegnati a mangiare nelle loro gavette. Di lì a poco fu l’inferno. Le bombe colpirono gli edifici in cui riparavano i cavalli. Morirono tutti. Morì anche Concetta Rametta, la sorella di Turiddu il tappezziere: povera ragazza, aveva delle trecce così belle! E morì anche la mula di Guccione. Povera mula e povero Guccione.
Peni niviri e fami ranni.
Poi, nelle grotte lì al molino del ponte, c’erano i soldati alleati con tutto quel ben di Dio: scatolette di carne, di latte, e la cioccolata.
E lei aveva fame, una fame da lupi, ma la nonna non le aveva permesso di prendere quella vera manna dal cielo gettata lì per strada. Evidentemente temeva fosse avvelenata o pericolosa, così alla piccola Angela Mirabella, poco più che una bambina, non rimase che stare a guardare quel cibo abbandonato. Non le rimase dunque, che guardare quell’uomo che chiamavano Colonnello distribuire abiti civili a dei ragazzi che volevano solo scappare via dalla guerra, dalla paura, quei ragazzi che volevano solo tornare a casa.
Gli aerei che volavano sopra Scicli sembravano stormi d’uccelli che occupavano tutto il cielo. Loro, Sara e Sofia, splendide e giovanissime pronipoti di Angela Mirabella, chiedono con l’innocenza della tenera età se da quegli aerei arrivassero gli aiuti umanitari che vediamo nei film.
L’età incombe e la bisnonna non è certa di aver sentito la domanda.
- Gettavano le cose da mangiare? La cioccolata? - chiedono ancora entrambe all’unisono, da brave gemelle quali sono.
- Bummi! - risponde ben più disincantata lei – gettavano bummi!
Angela adesso è una vispa novantenne che combatte l’impari battaglia con quel virus infido che attanaglia il mondo da un paio d’anni. Ma nella sua vita lei ne ha viste tante.
Peni niviri e fami ranni, ripete come un refrain parlando della sua vita.
Furono anni duri quelli, specie per una ragazzina di 14 anni. Chi abitava nelle campagne o addirittura aveva un masseria poteva coltivare grano e legumi, allevare animali da cortile, ma per chi viveva in paese fu ancora più dura.
Racconta tanto Angela, racconta di soprusi e di paura, di peni niviri e fami ranni, che l’hanno costretta a diventar furba.
Racconta, ad esempio, di quando il padre la mandò a comprare della pasta, una misuredda d’olio e una di petrolio per il lume. E, preso l’occorrente, al momento di pagare, venne bloccata da una guarda: le attività commerciali alimentari furono chiuse proprio un istante prima che lei pagasse. Di lì a pochi giorni avrebbero assegnato loro la tessera annonaria e avrebbero potuto prendere solo quanto previsto.
E se già la sua famiglia non era abbiente e poteva permettersi di comprare giusto una misuredda da 250 millilitri d’olio, con quel tagliando sembrava piovesse sul bagnato: una pagnotta per ogni membro della famiglia e 50 gr. di zucchero di carrube ad ogni primo del mese. Loro erano in quattro: quattro pagnotte che non bastavano a sfamare neanche il solo padre. E lo zucchero? Che farsene dello zucchero quando hai così tanta fame? Allora si andava dai padroni, dai cavalieri, a scambiar quello zucchero nero con farina o con grano, con del pane. E mentre racconta di questo ad Angela si spezza la voce e con la rabbia che monta per le tante umiliazioni e sofferenze e col pudore che solo la dignità sa dare, sbotta: “che devo dirvi? Che mio fratello per la fame ha arrostito il cruschello sul fuoco? Che ne sapete voi!”.
È vero: che ne sappiamo noi!
Che ne sappiamo noi della fame che ti porta a rubare le pagnotte e nasconderle tra le gambe, che ne sappiamo noi di famiglie che partono con un materasso sulle spalle o una sedia come unico capitale da conservare tentando di sfuggire ai bombardamenti?! Che ne sappiamo di coltri infestate da pidocchi sulle quali stendersi per passare la notte in una grotta a San Matteo, mentre nel cielo sparano fuochi d’artificio di morte e devastazione? No, non ne sappiamo nulla noi. Siamo fortunati e non sappiamo neanche quello.
Peni niviri e fami ranni.
Ha dovuto imparare la furbizia, Angela, per bisogno, per sopravvivere ai soprusi, come quando è riuscita a scambiare dello zucchero con del frumento e aveva bisogno di portarlo al molino per macinarlo. Quale molino? Quello al centro del paese le avrebbe fatto pagare una vera e propria tangente per chiudere un occhio ed effettuare una molitura non consentita. Tanto valeva dunque spostarsi fuori dal paese, lungo la strada per Modica. Certo, la distanza era tanta, specie a percorrerla a piedi, ma avevano fame e quella farina avrebbe permesso alla sua famiglia di mettere qualcosa tra i denti. Ma in un’epoca di soverchie e disperazione, anche l’ultimo degli sbandati si atteggia a generale, e l’ultimo dei villani si spaccia per Cumannaturi. E la povera Angela, che aveva deciso di andare fino alla Fiumara di Modica per macinare quella farina illegalmente, si è ritrovò la strada sbarrata proprio dal Cumannaturi che le chiedeva un lasciapassare. Ovviamente Angela non aveva alcun lasciapassare e lui lo sapeva bene. Così, a riprova della sua magnanimità, le aveva dato una grande chance: andare a macinare e, al ritorno, consegnargli una parte della farina. Lui, paladino della giustizia, avrebbe “chiuso gli occhi” e l’avrebbe lasciata andare.
Ma era furba Angela, lo è ancora adesso che ha 90 anni e combatte il Covid, figuratevi a 14 anni e con la fame che le attanagliava lo stomaco. E aveva trovato una soluzione impegnativa certamente, ma sicuramente vantaggiosa per lei: tornare percorrendo il letto del fiume, passando alle spalle dell’aspirante aguzzino ed arrivare così a casa con il bottino della salvezza.
E lei, poco più che una bambina, percorse a piedi tanti chilometri sotto un sole cocente e camminando tra i sassi e l’acqua del letto del fiume.
A distanza di quasi 80 anni la signora Angela ricorda con sorprendente lucidità quell’evento, quei giorni di disperazione, quella vita di peni niviri e fami ranni, ma un momento sembra averla segnata più d’ogni altro quel giorno di soprusi e angheria.
Quando Angela arrivò a casa portava con sé i segni della fatica della lunga marcia e quando il suo papà Agostino, reduce di guerra e richiamato poi a Tripoli, vide che la sua piccola non aveva più le scarpe, semplicemente scoppiò a piangere.
Avrebbe anche voluto fargliene fare di nuove e quei paracadute che erano arrivati dal cielo erano perfetti! C’era solo un problema e non di poco conto: le corde ottenute col paracadute americano costavano 10.000 Lire e lui guadagnava un Tumino e 10 Lire al mese.
Peni niviri e fami ranni.
Angela Mirabella è una donna forte e coraggiosa, una donna d’altri tempi, di quelle che non si sono mai piegate, che non si sono mai lasciate abbattere dallo sconforto. Angela, mentre racconta queste storie alle sue pronipoti, non ha mai lasciato spazio alla pietà né si è mai pianta addosso. Eppure, tra le tante, c’è una frase che mi ha colpito il cuore e lo stomaco. Raccontando di quei mesi difficili, di quella fame nera e di quelle difficoltà sempre più insormontabili, pur mantenendo sempre quel contegno tutto femminile e tutto siciliano che mi riporta alla mia meravigliosa nonna Razietta, Angela si lascia andare ad un attimo di malinconia, dicendo che una vita come la sua non l’hanno vissuta neanche i cani, perché neanche un cane avrebbe potuto resistere a tutto quello.
Peni niviri e fami ranni, ché la guerra se non t’ammazza con i fucili, ti elimina così, con la fame, le umiliazioni e i soprusi.
Ad Angela Mirabella il mio più sincero ringraziamento. Alle sue pronipoti Sara e Sofia Nigito l’augurio che facciano tesoro delle parole della loro bisnonna e che possano affrontare tutte le difficoltà della vita con la stessa forza, dignità e furbizia.