Storia di un padre, di un figlio e della sorte

Secondo i latini, la parola “fortuna” è una vox media, ovvero un vocabolo che non ha significato

positivo o negativo in sé, aspetto dall’aggettivo che l’accompagna. Pensate alla buona o alla mala-

sorte oppure alla “gloria” e alla “vanagloria”. Tutte voces mediae.

Sin da quando Pietro mi ha raccontato del suo papà Antonio, l’unica parola che mi è venuta in

mente è proprio la vox media per antonomasia: Fortuna.

Nascere ultimo di 10 fratelli non è esattamente un colpo di fortuna se la tua famiglia non è ricca.

Nascere nel 1915 non lo è nemmeno: significa finire il servizio militare quando sta per scoppiare la

guerra. Per Antonio Giorgini ha significato aver avuto il tempo di illudersi che fortuna, quella vox

media tanto cara ai latinisti, stava assumendo l’accezione positiva, giusto il tempo di sposare

Chiara Angiolillo, il 28 dicembre del 1938, per poi vedersi richiamato alle armi e spedito a Tripoli. E

poi di nuovo: congedato prima e richiamato poi, ma stavolta con l’81° Reggimento Fanteria della

“Torino”, lontano migliaia di chilometri dalle sue montagne e lontano da quel caldo africano, con

l’ARMIR, l’Armata italiana in Russia. E dalla polvere di quelle sterminate pianure d’estate ai deserti

di fango e bestemmie dell’autunno russo, per ritrovarsi a scappare nel freddo polare della ritirata,

incalzati dai russi e dalla morte. Ma fortuna è vox media e lui ce l’ha fatta, è riuscito a rimpatriare,

è congelato – e quella è la malasorte -, ma è vivo: e quella è fortuna!

Certo è stato proprio fortunato ad ottenere una licenza per tornare a casa, nel Sud Italia, proprio

l’8 settembre del ’43, ed ancor di più quando tedeschi l’hanno fatto prigioniero mentre andava alla

stazione dei treni vicino San Paolo Fuori le Mura. Fortuna è vox media e nell’orrore degli stalag in

cui vengono rinchiusi e costretti a lavorare come animali, nella manifestazione tangibile della

malvagità dell’uomo, Antonio ha incontrato un compaesano che è diventato amico e fratello,

Pietro Graziano, ed anche una donna, una giovane studentessa polacca, Stanislawa Lewandowska,

che riusciva a procurargli qualcosa da mangiare a rischio della sua stessa vita. Nell’atrocità dei

campi d’internamento Antonio ha incontrato l’amicizia, come una rosa di Gerico sbocciata nel

deserto. È un regalo di Dio una rosa di Gerico, un vero miracolo della natura: un cespuglio

rinsecchito che si lascia trascinare dai venti tra le dune di sabbia, ma quando c’è una traccia

d’acqua quel cespuglio si stanzia e fiorisce, si apre alla vita con colori splendenti. Pietro e

Stanislawa sono rose di Gerico nel deserto di uno stalag di cui neanche suo figlio sa il nome.

Eppure Pietro, il figlio di Antonio, ha fatto ricerche meticolose per ricostruire la vita del padre. Non

se l’è goduto come sarebbe stato giusto, non ha vissuto una vita protetto dall’ala del suo papà.

Antonio, tornato nella sua Pescopagano, piccolo paesino della Basilicata, non è l’eroe di Russia né

il partigiano non armato che ha preferito il campo di concentramento alla repubblica di Salò.

Antonio, come la maggior parte di quei ragazzi tornati per miracolo e per fortuna, è un derelitto

nell’anima prima ancora che nel corpo e fortuna è vox media ed ha capito che se voleva che i suoi

figli avessero una vita diversa dalla sua, una vita che non fosse “piena di dolore e sacrifici”,

sarebbe dovuto emigrare. E via, a rincorrere la fortuna, prima in Argentina e poi in Venezuela

dove c’è Pietro, quel suo fratello di prigionia, sognando di far fiorire altre rosa di Gerico, sperando

di poter crescere i suoi figli, anche se questo significa lasciarli soli.

E ce la fa: fortuna è vox media, ma Antonio è cocciuto ed i suoi figli sono gioielli preziosissimi per

cui val bene farsi in quattro.


Fortuna è vox media e sembra che Antonio sia destinato a vedere sempre la parte dolorosa di

quella parola: la guerra, la prigionia, l’emigrazione, il terremoto dell’Irpinia, la sua famiglia

distrutta dalla morte del figlio di 33 anni. Anche il suo amico Piero è morto, se n’è andato più

lontano ancora del Venezuela, eppure Antonio lo sa: se troverà le scocce delle patate le terrà da

parte per lui, a dividerle come fanno i fratelli.

Sono convinta che il figlio Pietro ha ereditato da lui la forza d’animo e il coraggio, la caparbietà e il

senso della dignità. Da ragazzino si è trasferito a Napoli dalla sorella e poi, studiando e lavorando,

giorno e notte, è diventato un uomo importante, uno di quelli che tornava al paese con la

macchina grossa, uno di quelli che ce l’hanno fatta e che non devono ringraziare nessuno. Anche la

sua mamma lo diceva, col cuore gonfio d’orgoglio, anche se Pietro l’ha saputo solo dopo che lei è

morta. Fortuna è vox media e Pietro se l’è costruita pezzo per pezzo, l’ha edificata centimetro per

centimetro, pietruzza per pietruzza, ricordandosi sempre da dove viene e ricostruendo la storia del

suo papà per rendere omaggio ad un ragazzo di Pescopagano che ha avuto la fortuna di nascere

nel 1915 e di farsi la guerra in Africa e la ritirata di Russia, di ottenere una licenza per guadagnarsi

due anni di campi di prigionia in Germania. Ha voluto restituire onore ad un uomo che non si è mai

piegato, che ha preferito partire per l’Argentina prima e il Venezuela poi piuttosto che portare “la

mancia per comprare il sale”, ha scelto di costruirsela da solo la fortuna ché anche se è vox media

non si può barattare con l’onore, con l’essere uomo. E così, il 17 maggio del 2017, il Presidente

della Repubblica ha conferito la medaglia d’onore alla memoria ad Antonio, con tanto di cerimonia

il 2 giugno successivo; e poi ancora il 20 gennaio del 2020 il Comando Militare dell’Esercito

“Basilicata” gli ha dato la medaglia commemorativa della guerra di Liberazione, ed hanno

organizzato una festa in grande stile, come si fa per le persone importanti, per quegli uomini che,

senza saperlo, sono stati eroi.

Antonio e suo figlio Pietro hanno imparato dalla vita che fortuna è vox media, ma sanno anche che

ciascuno è l’artefice della propria e loro se la sono costruita con le unghie e con i denti, col sudore

della fronte e scocce di patate, con l’amicizia per due rose del deserto sbocciate nei campi di

concentramento tedeschi, e con l’amore di una famiglia che ha resistito alla povertà e all’oceano

Atlantico.

Ad Antonio Giorgini, eroe silenzioso e lavoratore infaticabile, e a suo figlio Pietro, ragazzino

caparbio che s’è fatto uomo, marito, padre e nonno. E ce l’ha fatta.