Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare. Io dico che c'è un
tempo sognato che bisognava sognare (I.Fossati).
Non riesco. Non riesco a trovare le parole per scrivere di lui, di ciò che ha rappresentato per
me, di quanto sia stato importante per la mia crescita. I suoi racconti, i suoi valori, il suo
esempio. E, sopra ogni cosa, il bacio della buonanotte che quella sera il mio papà non mi
aveva potuto dare. Avevo meno di otto anni e non avevo mai dormito lontana da casa. La
mia amica Paola aveva chiamato Giovanni, raccontandogli che proprio non riuscivo a
trattenere le lacrime. Lui era venuto fino al mio sacco a pelo, mi aveva dato quel bacio della
buonanotte che aspettavo, e io, semplicemente, mi ero addormentata.
Per i primi anni della mia vita, Giovanni non era Giovanni. Era il Capo Akela. Se i miei
genitori mi avevano affidata a lui, significava che potevo fidarmi ciecamente. E così è stato.
Giovanni, per la me bambina, è stato un punto di riferimento luminoso, tanto nel mondo degli
scout quanto nella vita vera.
Ho sempre sentito Giovanni come una figura paterna, proprio come il mio Pippo: un uomo
affettuoso, che non ha mai negato la tenerezza, ma che sapeva essere fermo, a tratti
rigoroso.
L'ultima volta che ci siamo visti, però, i ruoli si sono invertiti. Era una serata organizzata dalle
Mamme di Modica sulla scalinata di San Giovanni, e Arianna, con la sua solita gentilezza, mi
aveva chiesto di partecipare. Seduti per terra, come quando ero una piccola scout, ho
raccontato le mie storie. E il mio Akela era lì.
Il mio racconto è partito proprio da lui, da ciò che mi ha insegnato. Su tutto, l'amorevolezza.
Quella sera, ancora una volta, ho visto la magia di Giovanni: un padre-bambino, un uomo
grande e grosso, fermo, che ha abbassato la testa irrigidendosi mentre parlavo. Eppure, nei
suoi occhi, l'emozione era palese.
Mi ha raccontato di suo padre, della sua prigionia, e mi ha promesso che mi avrebbe
mandato un suo manoscritto. Pochi giorni dopo, nella mia casella di posta è arrivata la sua
storia. Una storia che non conoscevo, che mi ha spiazzata. Negli stessi giorni, negli archivi
della Croce Rossa Italiana, ho trovato la conferma del suo passato.
Rileggo il racconto di Giovanni, la sua voce tenera e lucida che descrive un uomo che non
ha avuto tempo. Un uomo che non ha avuto il tempo di essere bambino, di essere ragazzo,
e neppure di essere padre.
Leggo di un caffè dalla Bonajuto mai preso insieme e li immagino seduti lì: Giovanni, con le
gambe incrociate come gli scout, e suo padre Salvatore, con il vestito buono della domenica,
quello conquistato con il sudore di una vita. Nella mia mente l'immagine è chiara, quasi
potessi vederli davvero, quasi potessi ascoltare le parole di un padre che deve giustificare al
figlio la sua assenza.
"Giovanni, oh papà! Sono nato il 31 marzo 1920 e la mia vita è stata quella di tanti: niente
tempo per la scuola o il gioco, solo fatica. Ho studiato poco, quel che bastava per diventare
caporal maggiore. Poi sono partito soldato, perché c'era la guerra, e mi hanno mandato in
Russia. Quando siamo tornati, facevamo pena: ci dicevano di chiudere i finestrini e di non
parlare con nessuno. I pidocchi erano la nostra misura della vita: se li avevi addosso, voleva
dire che eri ancora vivo. Li ho visti fuggire dai corpi dei miei compagni a migliaia, come
granelli di sabbia impazziti su una lastra di marmo.
Poi sono tornato, e sono tornato vivo. Ho conosciuto tua madre, abbiamo imparato ad
amarci. Ma non ho avuto molto tempo per essere felice. Quando sei nato, ho capito che non
dovevi conoscere le privazioni che ho vissuto io. Così, nel '48, sono partito per Maracaibo,
con una valigia di cartone piena di speranze. Speranze per te e per Cuncittina. Speranze di
avere tempo per stare con te, per fare ciò che fanno gli altri padri. Ma sono tornato come
sono partito.
E poi, quando finalmente ero di nuovo a Modica, la vita non mi ha lasciato scampo. Un
giorno, mentre lavoravo, una vena si è chiusa. Ho avuto solo il tempo di chiamare tua
madre. E poi mi sono addormentato. La mia vita è finita lì, su un letto d'obitorio, sporco di
calce e cemento. Poco più di un ragazzo che non ha mai avuto tempo di essere bambino e
neppure padre.
Amuninni, oh papà, sali ampapéo e andiamo a guardare San Giorgio".
Salvatore Rosa, di Giovanni, nato a Modica il 31 marzo 1920, ha combattuto in Russia
durante la Seconda guerra mondiale, conoscendo la prigionia, sopravvivendo a quella, a un
viaggio in Venezuela, e infine tornando a casa.
Turiddu Rosa, il papà di Giovanni, si è spento poco più che cinquantenne per un ictus
ischemico, mentre lavorava. Non ha mai avuto il tempo di portare sulle spalle suo figlio a
guardare la festa di San Giorgio.
Possa il mio più sincero ringraziamento arrivare a Giovanni, il mio Akela, per avermi dato
quel bacio della buonanotte che ha asciugato le mie lacrime di bambina.
E possa questo asciugare le sue.
Giovanni Rosa con il figlio Salvatore.