La musica parla tutte le lingue del mondo e tutti i dialetti d’Italia. 

La storia di Alfiero

«I fou de love appriesse a te

Amor che a me me fas le feu, la glace, plaisir, dolor» (A. Branduardi, Fou de love).

Lo scorso dicembre, passeggiando per le vie di Praga insieme a mio marito, mi sono imbattuta in un duo di musicisti: un violino ed un violoncello. Né io né mio marito siamo riusciti ad andare oltre: quei due ragazzi ci avevano completamente sedotti e siamo rimasti impalati lì a guardarli, incantati dalla magia della musica. E ricordo di aver preso il telefono ed avere girato un video in cui riprendevo i musicisti e tutti noi che lo guardavamo. Girando quel video mi ero accorta che c’era gente da tutto il mondo. Ho inviato quel video alla mia “amica del Don” Paola Galardi, mia amica del cuore e sorella d’anima. Sapevo che lei avrebbe colto tutta la magia di quel momento, non tanto per la musica, non solo per quella, quanto perché in quel momento il mondo non aveva confini. A lei, che parla l’italiano meraviglioso che parlano i toscani, che mi fa battere il cuore con i suoi “codesto”,  avevo scritto “La musica è una lingua internazionale”. Lo è e parla tutti i dialetti del mondo, come l’amore.   

Paola è una di quelle persone che ti entrano nel cuore sin dalla prima volta che ci parli. Lei, vulcanica, sorprendente, di una sensibilità tutta femminile e mai stucchevole, è arrivata all’interno di Fronte del Don insieme al Dottor Morelli. Credo si vogliano bene come fratello e sorella. Si danno del lei. Lei lo chiama “Dottor Morelli”, lui “Dottoressa Galardi”. Tra di loro, mi racconta, usano parlare il pistoiese. 

Insieme hanno scritto un libro dedicato al cugino di Paola morto in Russia, sul fronte del Don, Alfiero Innocenti, un bersagliere di 24 anni. 

Hanno scritto un libro dedicato ad Alfiero e lo hanno scritto in una lingua d’amore, che parla tutte le lingue del mondo e tutti i dialetti d’Italia. 


«Passerà anche questa stazione senza far male 

passerà questa pioggia sottile come passa il dolore» (F. De André, Hotel Supramonte).

La storia di Alfiero Innocenti  l’hanno raccontata loro: lei col cuore e con l’anima, lui col cuore e la mente. La storia di Alfiero è la storia di tanti ragazzi che non hanno fatto ritorno dalla Russia. Non uno dei tanti, non per me, non per la mia amica Paola Galardi: quei solchi dell’epigenetica lasciano il segno senza che ne abbiamo consapevolezza e a lei quel dolore di quel non ritorno ha scavato il cuore sin da bambina. L’ha solcato come quella gutta qui cavat lapidem, non con la forza, ma respirando con lei, crescendo con lei. 

E lei, da donna vera qual è, ha deciso di affrontarlo questo dolore, di dargli voce, foss’anche di urlarlo. E alla sua umanità meravigliosa, alla sua passione travolgente ha fatto da contraltare il dottor Morelli. Lui, vero gentiluomo d’altri tempi, ha studiato, ricostruito, esaminato ed infine scandagliato il percorso di Alfiero dalla partenza dalla stazione di Pistoia, quando il papà di Paola aveva salutato per l’ultima volta quel suo cugino che amava tanto, fino alla zona di Meskov, fino alla fine di “Pallino”... e l’ha fatto con meticolosità da vero ricercatore, con un’attenzione degna di un cardiochirurgo. Un cardiochirurgo non a caso: Patrizio sapeva che aveva tra le mani il cuore di Paola e della sua famiglia, tutta una famiglia con la stessa cicatrice scavata dal non ritorno di Alfiero: ed il cuore degli altri si tocca con i guanti di seta! 


«Non piangere per me, ci troveremo ancora - sai - 

In qualche splendido giorno» (Modena City Ramblers, Qualche splendido giorno).

Stavolta voglio iniziare dalla fine, dai racconti che mi ha fatto Paola, come quella volta in cui 

sua zia Laudomia, la mamma di Alfiero, vedendola “frignare sullo studio di un esame, [la] redarguì: «Qui non si piange! A me mi è morto un bambino e lacrime non ne ho più»”.

Un bambino… per le mamme i figli sono sempre bambini. Era nato a Pistoia il 18 aprile del 1918 ed era morto il 18  dicembre 1942, intorno alle 7:10 di mattina, quando i russi, partendo da quota 163,30, e percorrendo meno di un chilometro, avevano travolto il plotone di destra dell’11ª Compagnia del 3° Reggimento Bersaglieri, quello di Alfiero. Aveva 24 anni e forse lo era per davvero. Il papà di Paola, quel Rolando che l’aveva accompagnato alla stazione per andare incontro alla morte, era andato cercando informazioni su di lui quando i pochi sopravvissuti rimpatriavano dalla Russia. Aveva incontrato il Generale del 3° Bersaglieri che l’aveva messo in contatto con un tenente di La Spezia sopravvissuto ai combattimenti prima e alla prigionia poi. Proprio durante la prigionia aveva saputo da alcuni bersaglieri del 3°, prigionieri come lui, che Alfiero era stato colpito in fronte. Chiedere a quei bersaglieri di confermare sarebbe stato impossibile: erano morti tutti, morti di freddo, morti di fame e di stenti in un campo di concentramento russo. 


«Lo colse in fronte una margherita…» (P. Gagliardi, La ballata dell’uomo in più).

Alfiero era solo morto prima, pare dopo aver dimostrato tanto eroismo da volerlo proporre per una medaglia. O forse era per davvero solo un bambino perché quando aveva capito che scarica di mitra era per lui, lui - giovane poco più che bambino - aveva chiamato la mamma. Ed era morto. 

Forse hanno fatto in tempo a crederci per un po’ Gigi e Laudomia, i genitori di Alfiero, gli zii di Paola e anche di Rolando, quello stesso nipote che andava cercando informazioni tra i reduci. 

Un tenente amico di Alfiero, un certo Franco Santoro, aveva spento qualunque possibilità di spiraglio di luce nei cuori di quei genitori. In una lettera dell’11 novembre 1946 indirizzata alla mamma di Alfiero le racconta della sua angoscia dopo i combattimenti per la sorte di quel suo caro amico che non rispondeva più alle sue continue chiamate. Così aveva chiamato il comandante della compagnia, il tenente Brandiele, e aveva chiesto del loro amico “Pallino”, ché loro lo chiamavano così, forse perché davvero era ancora un bambino. E Brandiele gliel’aveva detto chiaro e tondo: “Pallino sta bene. È in Paradiso”. Poi raccontava che prima di morire aveva strappato il piumetto dal suo elmetto da bersagliere e se l’era stretto sul cuore. 

Anche Gigi, il suo papà, lo considerava un bambino. Lo scrive chiaramente in una lettera scritta nel gennaio ‘43, indirizzata a tale Giussani, un amico di famiglia impiegato presso il Ministero della Guerra: “partì di qui diretto in Russia il mio bambino”. C'era ancora speranza quando aveva scritto quella lettera. Spera ancora che il suo bambino sia vivo, forse prigioniero, ma almeno vivo. 


«Ne me quitte pas… Non andare via!» (Jacques Brel, Ne me quitte pas).

Gigi, il papà di Alfiero, l’aveva supplicato di non partire! Paola lo racconta con la potenza devastante di una fotografia. C’è il suo papà, quel cugino ancora più bambino di Alfiero, quel Rolando che l’aveva accompagnato alla stazione dei treni e non l’avrebbe mai più rivisto, che mima tutta la disperazione dello zio Gigi: le mani tra i capelli ed una sola frase ripetuta mille volte: «Non andare!». In quella supplica c’è tutta la disperazione di un uomo che sa cos’è la guerra, sa cos’è la prigionia e sa di quanto orrore è capace l’uomo. 

Era il suo bambino, anche se era un uomo bell’e fatto. O forse era solo un bambino per davvero, un giovane ufficiale dei bersaglieri che fiero ed eroico era morto chiamando la sua mamma… come i bambini, come tutti i soldati di tutti gli eserciti, morti chiamando la mamma. 

Gigi l’aveva conosciuta bene la guerra: maledetta sciagura essere un “ragazzo del ‘99”, maledetta Grande Guerra e maledetta prigionia in mano austriaca. Era tornato vivo nel corpo, massacrato nell’anima. E poi aveva sposato Laudomia e la vita, forse, poteva rinascere. E poi era arrivato Alfiero e il mondo era rifiorito e la vita era risorta nel sorriso di quel ragazzo, di quel loro unico figlio. 


«Ora che è morto la patria si gloria d'un altro eroe alla memoria» (F. De André, La ballata dell’eroe). 

Era un antifascista Gigi e doveva essere anche un brav’uomo. Aveva un negozio di generi alimentari, come mio nonno Giovanni, e aveva avuto non pochi guai. Dava ai bisognosi più di quello che la tessera annonaria permetteva di dare e per questo era stato picchiato e “ricinato”. Forse per questo, mi racconta Paola, non volle chiedere nessuna medaglia per Alfiero: forse chi gliel’avrebbe appuntata al petto sarebbe stato proprio chi l’aveva bastonato e aveva cercato di strappargli l’anima a forza di botte, chi quella maledetta guerra la considerava santa! E con Alfiero gli avevano portato via tutto. Tutto. 


«Lo sai mamma mia che freddo fa stasera

E quanti occhi senza niente accanto a me

Chissà se mai la finirà, chissà se tu mi rivedrai» (M. Priviero, La strada del Davai).

La storia di Alfiero è finita il 16 dicembre 1947, quando presso il comune di Pistoia si constatava che “ In data undici giugno millenovecentoquarantasette il Comune di Pistoia con atto notorio confermato dai Carabinieri segnalava a questo Distretto Militare che il nominativo INNOCENTI Alfiero di Luigi e della Braccini Laudomia, nato il diciotto aprile millenovecentoventuno a Pistoia - Sotto Tenente - [...] in occasione di fatto d’armi avvenuto il 19 dicembre millenovecentoquarantadue in Russia, scomparve, e che dopo tale fatto non venne riconosciuto tra i militari dei quali fu legalmente accertata la morte o la prigionia.” 

La storia di Gigi e Laudomia è finita il 18 dicembre 1942, quando una scarica di mitra ha preso in pieno il loro unico figlio, quand’era solo un ragazzo, o forse era solo un bambino che, un istante prima di morire, aveva chiamato la mamma. 

Silenzio.