Sono Di Gabriele Giovanni.

Se vedete mia madre:

ditele che sono vivo


“Catturato dai tedeschi e condotto in Germania lì rientrato in Italia e presentatosi al Centro Alloggio del Distretto Militare di Ragusa. Considerato come prigioniero di guerra a tutti gli effetti […]. Concessagli licenza per prigionia di giorni 60. Tale licenza straordinaria senza assegni in attesa di disposizioni.”

In queste poche, algide, righe è racchiusa la storia di Giovanni Di Gabriele, tutta la sua vita dall’8 settembre del 1943 al 22 settembre del 1945.

Nella parte sinistra del Foglio Matricolare e Caratteristico, le peculiarità di quel ragazzo: il nome dei genitori (chissà perché cancellati entrambi dalla censura), la data di nascita, l’altezza, il colore dei capelli e quello degli occhi.

Ecco, se c’è una cosa che di quell’uomo mai potrò dimenticare, sono proprio quegli occhi. Mai visto nulla di simile: mai visti due occhi così, di un incredibile celeste scintillante di vita; mai visti due laghi così limpidi, quasi incontaminati. Era un omone Giovanni, grande e forte, guardiano fedele ed attentissimo della mia automobile, che lui sorvegliava tanto da malintenzionati quanto dagli ausiliari del traffico.

Di lui conservo un ricordo carico di dolcezza e di affetto, oltre che di profonda tenerezza. Una delle ultime volte in cui abbiamo parlato, mi raccontò ancora una volta di quella sua fuga rocambolesca dal campo di concentramento, ma vedere quei suoi incredibili occhi riempirsi di lacrime, sentire la sua voce rotta dal pianto, - ricordo bene - mi spezzò il cuore e gli chiesi di smettere.


Lui non c’è più, ma sin dal momento della progettazione di questa rubrica, quest’estate, una delle mie poche certezze era che avrei scritto di lui.

Così ho approfittato dell’amicizia con Carmen, la splendida nuora del signor Di Gabriele, per organizzare un incontro con i figli e la vedova. E, con immensa gioia, ho trovato splendide persone che mi hanno accolta come se fossi stata di famiglia, pronte a raccontarmi di quell’uomo, grande e forte, con gli occhi limpidi color del cielo ed il sorriso buono che solo i nonni sanno avere.

Roberto e Liliana hanno anche loro gli occhi incredibilmente chiari, i geni del padre sono più che evidenti nei loro volti. E poi c’è la moglie, la signora Angela, che sembra quasi emozionata da quell’incontro e che, col piglio delle nonne, mi piazza sotto il naso tante splendide leccornie e socchiude gli occhi minacciosamente finché non mangiamo almeno un cioccolatino a testa.

E nel giro di pochi istanti siamo già alla fuga dal campo, a quella zattera costruita per oltrepassare il Reno, costruita da quel ragazzo e da altri come lui. Non sappiamo in quale campo fu rinchiuso, non lo disse mai, solo che vi era stato spedito dopo 40 giorni di botte ed interrogatori, scambiato come fu per un capo Partigiano. Di quei 40 giorni ha raccontato un aneddoto drammaticamente eloquente alla moglie, che lei stessa mi racconta in lacrime. Un prigioniero aveva chiesto di potersi confessare con un prete, presagendo forse di stare per rendere l’anima a Dio. Fu accontentato, ma il prete dopo fu picchiato fino a quando non rivelò il contenuto del sacramento. Della vita del campo non raccontò mai nulla, né della guerra, solo che aveva mangiato tanto riso da non volerne più vedere (un’idiosincrasia quella verso il riso propria di tutti i soldati che hanno combattuto la guerra), che aveva maledettamente patito il freddo e la fame e che i suoi occhi avevano visto cose che non si potevano raccontare. Null’altro, se non che la popolazione che viveva vicino al campo, mossa a pietà, lasciava lungo il reticolato di filo spinato le bucce delle patate che loro, nottetempo, mangiavano in preda alla disperazione.

La fuga dal campo, quella sì, di quella parlava e la raccontava con entusiasmo.

Raccontava, ad esempio, che gli ultimi giorni nel campo furono convulsi, con gli Alleati che avanzavano da una parte, i Russi dall’altra e i tedeschi in fuga anche loro dal campo. E proprio in quell’occasione l’unico richiamo all’orrore, raccontato quasi con pudore, sottovoce e di nascosto a mio padre. Quando oramai tutto era finito per i tedeschi, un gruppo di internati italiani decise di farsi giustizia contro il comandante del campo che non aveva esitato a bastonarli e picchiarli nei due anni di prigionia: andarono a prenderlo direttamente nel suo appartamento e garantirono alla moglie implorante che non gli avrebbero fatto del male, solo ricambiato il favore. Lo spogliarono, lo legarono al motore di un’automobile, misero in moto e lasciarono andare l’uno e l’altra. E a me che origliavo sgomenta e chiedevo dove avessero trovato il coraggio, rispose con una durezza sino ad allora sconosciuta: “Tu non puoi sapere quello che ci aveva fatto”. È vero e ringrazio il Cielo che sia così.

Fu una donna del luogo ad indicar loro la strada a spiegare che attraversare il Reno era l’unica speranza di salvezza. E così fu, calzando delle scarpe fatte di corde intrecciate da loro e guadando quel fiume con quella zattera. Arrivarono a piedi fino in Svizzera, mangiando una poltiglia con la farina che un mugnaio aveva regalato loro con dell’aggiunta di acqua, cotta in contenitori che trovavano lungo la strada. Lì fu curato per qualche tempo e poi rimandato in Italia, in Veneto. Ma la guerra non era finita, la follia dei repubblichini, in quella combutta dagli esiti nefasti e disumani con le SS, stava dando il peggio di sé, ed il povero Giovanni riuscì ad arrivare sino ad Udine SOTTO un treno e a rimanere lì ancora nascosto dalla popolazione civile, dividendo con loro quel poco, pochissimo, che avevano.

Dal Veneto a Siracusa è sì tornato in treno (sopra questa volta), ma in piedi, perché non c’era posto neanche per un reduce. Lì il cambio di treno ed il tempo di andare da un barbiere, seppur senza un soldo in tasca, promettendogli però di tornare alla prima occasione possibile per sanare il debito. L’ultimo tratto del rientro fu glorioso: finalmente, infatti, un uomo si accorse che era un reduce di guerra e fece in modo che qualcuno gli cedesse il posto a sedere.

Un dato che noi, ormai costantemente ed agevolmente connessi l’un l’altro, tendiamo a dimenticare è che l’unico modo che avevano i soldati per comunicare con le loro famiglie era il servizio postale. Ma il nostro era un Paese era distrutto, devastato fin nelle viscere.

Dal momento dell’internamento nel campo di concentramento tedesco, la famiglia Di Gabriele non ebbe più alcuna notizia del figlio e forse iniziò a rassegnarsi all’idea che non l’avrebbero mai più sentito né più visto.

Ed invece, mentre il soldato Giovanni Di Gabriele, classe 1922, già Carrista del Regio Esercito e già “prigioniero di guerra a tutti gli effetti”, si trovava in Veneto, gli fu data la possibilità di parlare alla radio per poter informare la famiglia che era vivo e che sarebbe tornato a casa.

“Sono Di Gabriele Giovanni, abito a tali puntu. Se vedete mia madre, ditele che sono vivo”

L’annuncio passò alla radio alle 11 di sera, e fu ascoltato da un barbiere a Modica Alta dall’unico impianto radiofonico della zona, presente presso la Società Operaia. E quell’uomo corse dalla mamma di Giovanni riferire, a raccontare che quel suo figlio preso prigioniero dai tedeschi, non era morto e che sarebbe tornato a casa.

Forse avrei dovuto scrivere molto altro sul Signor Di Gabriele, ma so per certo che alla signora Angela, alla sua voce rotta dal pianto, a suo fratello che ha fatto la campagna d’Africa, al suo papà, fiero eroe e Cavaliere di Vittorio Veneto, a quella sua vita i cui grandi amori hanno avuto l’anima straziata dall’orrore; a lei voglio dedicare ancora tante righe e tutta la mia gratitudine per avermi aperto il suo cuore.