Ma, in fondo, l'amore cos'è?

Storia di una sorella, di un nipote e di un Granatiere di Sardegna nel Posto delle fragole

Ma l'amore, in fondo cos'è? Cos'è quel sentimento che ti lega a qualcuno, ad una persona che diventa parte irrinunciabile di te? Cos'altro può essere se non amore quel sentimento che ti spinge ad aspettare e sperare, a sognare e desiderare tanto una presenza da farne cosa viva? Finché non li dimentichi, loro sono vivi. E se invece rimanessero vivi finché li ami? Se la differenza fosse tutta lì, nell'amore? Se dovessi scegliere un vero filo rosso per questa mia rubrica, io non sceglierei la guerra né le lacrime. Io sceglierei l'amore.

L'amore vero, ancestrale, l'amore che va oltre le dimensioni del corpo. L'amore che si fa attesa che sai già eterna, ma che non smette di sperare, di sognare, di desiderare.

L'amore inteso come sentimento primigenio, quel sentimento che parte dall'anima e non conosce ragione.

Ed ancora l’amore di un ragazzino che, in un cinema degli anni Sessanta, guarda “Italiani brava gente” e vede la sua mamma piangere lacrime calde per quel suo fratello mai tornato dalla Russia.

Piangeva Rosa, piangeva in silenzio guardando la sorte di quei poveri ragazzi morti di freddo, di fame e fatica, attaccati dai pidocchi, dai topi e dai russi. Piangeva Rosa e piangevano i suoi fratelli. Piangevano per quel ragazzo, disperso tra i girasoli macchiati del sangue di uomini poco più che ragazzi, piangeva Nino, il suo bambino, destinato a non conoscere mai il suo papà. Ed Osvaldo, “il mio amico del Don” come lo chiamo io, ha voluto cercare quel suo zio disperso, sentendo dentro di sé quell’amore e quel dolore che unisce chi ha perso un pezzo di sé, della propria famiglia, nella follia della guerra.


Tardi, si rimprovera lui, ha iniziato tardi a cercarlo. No, gli ho risposto sin da quando me l’ha detto la prima volta. Non siamo noi che li cerchiamo, sono loro che ci chiedono di essere trovati: finché non li dimentichi, loro sono vivi. Mi piace pensare che sia così, che sentire l’amore sia questo: mantenerli in vita. Arturo Botto in realtà si chiamava Luigi. Il mio amico è stranito da questa incongruenza che invece per me è del tutto naturale.

Arturo era del ‘14, “quella classe che - scrive il mio amico Osvaldo - le guerre di Mussolini se l’è fatte tutte”.

Partì dalla sua Villa Facciù, una frazione di un piccolo comune del genovese, per l’Africa Orientale Italiana che aveva solo 21 anni. E lì, in Abissinia, rimase per due anni, a conoscer l’orrore che gli italiani non lesinarono a quei poveri disgraziati. Lì, ad Addis Abeba, gli italiani non furono brava gente.

Fece in tempo a tornare a casa, a metter su famiglia, ma non a dimenticare i massacri, l’orrore, la ferocia. Non sarebbe bastata una vita per dimenticare tutto questo e ad Arturo non bastarono di certo quella manciata d’anni che lo videro spettatore di nuovo orrore, di altri massacri, di nuova barbarie.

Lui, Granatiere di Sardegna della 121° compagnia cannoni controcarro 47/32, fu spedito prima in Slovenia e poi in Russia e lì aggregato alla Divisione Sforzesca. Sì, la Sforzesca, la cosiddetta Divisione Cikai che in russo significa “scappa”, la divisione che nella prima battaglia difensiva sul Don tra il 19 e il 31 agosto del ‘42, vide morire 600 ragazzi e quasi 1.000 furono fatti prigionieri. La Sforzesca, quella divisione che al 1° luglio del 1942 contava 12.521 uomini e che al 1° gennaio del ‘43, cinque mesi e l’operazione Piccolo Saturno dopo, ne ritrovava solo 4802.


Settemilasettecentodiciannove morti, dispersi, ragazzi ammazzati da quei carri armati a cui facevamo il solletico con la nostra artiglieria anticarro. Arturo era stato mandato sul Don, vicino a Yagodnyi, che in russo vuol dire il posto delle fragole. In realtà lì non c’erano che immense distese di girasoli in una terra fertile e grassa, terra che i nostri soldati contadini invidiavano, e poi c’erano i contadini russi, che avevano la stessa pelle del viso bruciata dal sole e dalla fatica, e le donne che avevano il fazzoletto in testa, come nella sua Facciù, come nella mia Modica.

Nelle notti di agosto del 1942 i russi sferrarono i loro attacchi contro il posto delle fragole, contro la Sforzesca rintanata, nascosta tra i girasoli, con i suoi cannoni controcarro 47/32 che ai russi facevano il solletico. Attaccarono per tre volte e per tre volte i girasoli si tinsero del rosso del sangue dei Granatieri di Sardegna e il posto delle fragole divenne una distesa di girasoli rossi di sangue e cadaveri, di lacrime e di bestemmie, di uomini poco più che ragazzi che chiamavano la mamma, che salutavano nel loro cuore i loro bambini, le loro fidanzate, di figli troppo lontani dai loro papà.

Forse Arturo è rimasto lì, non lo sappiamo. Non lo sapremo mai. Forse iniziò come tanti a camminare con alle spalle puntato il fucile di un russo che gli urlava Davaj, a percorrere chilometri su chilometri fino a Tambov. Forse Arturo, giovane Granatiere di Sardegna, arrivò a Tambov e non fece in tempo a farsi schedare perché era già morto.

Non lo sappiamo. Non lo sapremo mai.

C’è un posto in Russia in cui nell’estate del 1942 i girasoli si tinsero del sangue di 600 ragazzi italiani, innaffiati dalle lacrime di altri 900 prigionieri, mandati a fare la guerra, mandati a morire sotto i colpi dell’artiglieria russa, schiacciati dai cingoli dei carri armati a cui i nostri cannoni controcarro non davano neanche fastidio.

E c’è un posto in provincia di Genova, una piccola frazione di un piccolo comune, in cui un ragazzo di nome Albino, che aveva conosciuto l’orrore della guerra e che era tornato da un campo di prigionia tedesco, si sedeva sul gradino di casa e guardava il cielo e piangeva per suo fratello Arturo morto in Russia, in quel posto delle fragole in cui i girasoli sono del colore del sangue dei ragazzi della Sforzesca.

C’è un uomo che si chiama Osvaldo, che io chiamo “Mio prezioso Amico del Don”, che da ragazzo andò con i suoi genitori a guardare “Italiani brava gente" al cinema e vide la sua mamma piangere lacrime calde per suo fratello, lo zio Arturo che in realtà si chiamava Luigi, che era solo un ragazzo, mandato a fare la guerra in Russia e che la notte del 20 agosto del 1942 tinse di rosso col suo sangue i girasoli del posto delle fragole.