Mai più sangue!

Dello zio, del Solenne Encomio e dei Solenni Afanculu.

Io vengo da una famiglia di cacciatori: i Malavita lo sono sempre stati. Mio nonno lo era, il mio bisnonno lo è stato, come anche i suoi fratelli. Vengo da una famiglia di cacciatori, ma l’idea di fare del male ad un essere vivente – con l’unica eccezione delle zanzare, lo ammetto – mi ripugna. Ed ogni volta che mi sono rifiutata di uccidere od ho impedito che si uccidesse un topolino o qualunque altra bestiola entrasse in casa, mio padre mi ha sempre ripetuto sempre la stessa frase: «Ecco, sei come lo Zio Saro!».

Manco a dirlo: in breve tempo, lo zio Saro è diventato per me motivo di profondo orgoglio ed insaziabile curiosità.

Il mio prozio Rosario Giannone, dei Malavita, fu tiratore scelto nel reparto di Artiglieria da montagna del Regio Esercito. Lui e quattro dei suoi fratelli pensarono bene di nascere poco prima del ‘900, così da avere la fortuna sfacciata di combattere gran parte delle battaglie della I Guerra Mondiale e, soprattutto, di vivere in prima persona la Dodicesima battaglia dell’Isonzo. Sì, parlo proprio di quella, della Rotta di Caporetto, dei suoi 45.000 morti e 300.000 prigionieri. Ma lo zio Saro seppe distinguersi proprio in quell’occasione e dar prova di straordinarie qualità di tiratore. Un suo commilitone era riuscito ad individuare nella montagna di fronte un buco dal quale usciva un gran numero di austriaci, così lo zio si era appostato con la sua bell’arma, si era preso tutto il tempo necessario per prendere la mira per non sprecare i pochi colpi a disposizione, aveva caricato il suo bel 70/15, un cannone definito “intrinsecamente obsoleto” già dalla guerra Italo-Turca del 1911, ed aveva sparato. Assorbito il rinculo, che era uno dei peggiori difetti di quel cannone, aveva smontato mirino, alzo e culatta, li aveva nascosti sottoterra ed era fuggito a raggiungere la sua compagnia.

Non riesco ad immaginare lo sgomento di quel ragazzo quando non ritrovò più nessuno. Non erano andati via: erano tutti lì e lì li avrebbero ritrovati per sempre. Tutti morti, tutti. Qualcuno in effetti era andato via: il capitano. Lo zio aveva vagato per tre giorni per le montagne prima di trovare un posto di comando al quale far presente che lui era vivo e vegeto e che si era allontanato per sparare una granata da 5 chili contro il rifugio austriaco. Stranamente fu creduto, ma non certo senza remore. Fu l’anno dopo, quando le parti furono invertite e l’avanzata italiana sembrava inarrestabile che, giunti ancora lì, i comandi chiesero allo zio Saro di mostrar loro il punto da cui aveva sparato. Ritrovarono tutto: cannone, probabilmente tanto obsoleto da essere disdegnato anche dagli sguarniti austriaci, mirino, alza e culatta, nascosti sotto la terra poco distante da lì. E dopo vollero vedere il punto che aveva colpito. Lo spettacolo fu raccapricciante: dei corpi degli austriaci non erano rimasti che brandelli maciullati, il sangue era oramai rattrappito e i topi – verosimilmente – avevano banchettato.

Ricordate il capitano andato via? Lui aveva dichiarato che i suoi soldati erano tutti morti e per questo aveva lasciato la posizione. Erano passati i giorni scellerati di Cadorna e, con buona pace del generale del corpo d’armata, il povero capitano fu chiamato “a giudizio solenne” in adunata e, riconosciuto dallo zio Saro quale suo comandante di reparto, degradato e pubblicamente umiliato. Al tiratore scelto Rosario Giannone, dei Malavita, furono invece conferiti la Croce al Valore e l’Encomio Solenne.

Encomio solenne… ma quale encomio? Aveva visto così tanto sangue scorrere, aveva assistito alla morte di così tanti coetanei, che aveva deciso che non avrebbe più ucciso alcuna creatura. Troppi morti tra quelle montagne, troppi cadaveri in quei fiumi, troppa gente saltata in aria sui ponti del Tagliamento durante la ritirata di Caporetto. Nessun encomio poteva valer tanto, nulla di solenne poteva avere quella follia. Oh, chissà cosa avrebbe detto se avesse saputo che i ponti con le donne e i bambini sopra li avevamo fatti saltare noi!

Eppure lo zio raccontava di essere stato piuttosto fortunato: lui non era nelle trincee della prima linea con la fanteria. Lì l’acqua ti arrivava anche sopra la cintola e se non t’ammazzavano i cecchini austriaci finiva per farlo il tifo petecchiale. Poi raccontava che talvolta, al mattino, partivano battaglioni di 15 o 20.000 uomini e poi, a notte fonda, ne tornavano 5 o 10. Cinque o dieci, senza mila, malconci, terrorizzati e spesso feriti.

Raccontò anche che, durante l’inverno, la sua compagnia fu mandata in una cittadina dietro le linee del fronte per il riposo. Durante una libera uscita un gruppetto di tre o quattro suoi amici aveva deciso di andare a bere qualcosa nella bettola del paese. E lì, come sempre, c’erano gli Alpini impegnati ad ubriacarsi e a prendere in giro gli artiglieri. Quella fredda e buia sera d’inverno gli alpini avevano deciso di esagerare e, forse per l’ebrezza, forse per quella stupidità che è propria dei ragazzi, uno di loro decise di oltraggiare un artigliere vittoriese facendogli la pipì addosso. Ed incredibilmente quel vittoriese, straordinario nel maneggiare i coltelli secondo lo zio Saro, se ne uscì dalla bettola senza dire una sola parola. Gli altri amici invece si piazzarono lontani dalla porta d’ingresso ed uno di loro decise di spegnere la luce. I primi sei alpini fuoriusciti dalla bettola furono feriti a morte con un fendente netto e preciso, gli altri sei riportarono ferite piuttosto gravi. Tutte le ferite erano state inferte dallo stesso coltello.

Qualche giorno dopo un maggiore del reparto di artiglieria da montagna si era presentato nel paesino dove quei soldati erano stati chiamati in adunata, sproloquiando su come gli alpini si fossero meritata una bella lezione. Lui dunque era giunto fin lì per decorare con un premio chi aveva posto fine alla tracotanza del corpo alpino. Immagino la frustrazione del graduato quando nessuno di quei ragazzi volle fare il passo avanti richiesto per prendersi il merito di siffatta impresa, nonostante le medaglie rette in bella mostra dal maresciallo al suo fianco.

E, raccontando, chiedeva: “Tu lo sai cos’è la decimazione?” La decimazione, fin troppo spesso in uso nel Regio Esercito, significava che il maggiore aveva iniziato a contare: uno, due, tre… otto, nove, BOOM: Un colpo in testa. E di nuovo: uno, due tre… otto, nove, BOOM: Stavolta nel petto, dritto a spaccare il cuore. E ancora: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, BOOM. E il maggiore è caduto “come un sacco di patate… e afanculu!”, diceva solennemente lo zio Saro. Evidentemente si creò un gran caos, ma alla fine tutti convennero che era stata certamente opera di un cecchino austriaco.

Lo stesso cecchino austriaco intervenne certamente quando un soldato italiano si divertì a sparare ai sei prigionieri austriaci appena interrogati al comando di batteria. Quest’uomo si divertiva così: se questo è un uomo dunque. Loro uscivano, in fila, affamati come solo gli austriaci potevano essere, certamente spaventati. E lo zio Saro racconta di quanto gli sembrò folle e disumano e… si vede che l’improvvisato giustiziere degli austriaci era sotto tiro: “E afanculu” diceva solennemente lo zio Saro.

Il mio prozio Rosario Giannone, dei Malavita, fiero cacciatore, partì per la guerra che era poco più che un ragazzo. Partì con quattro dei suoi cinque fratelli. Tornarono tutti a casa dai genitori, esaudendo così il desiderio affidato dalla mamma alla Madonna delle Grazie. Tornarono tutti e cinque, con l’anima ferita e negli occhi ancora la morte. Lo zio Saro non uccise più alcun animale, neanche i topolini di campagna che entravano in casa: li catturava con del formaggio e li liberava distanti da casa. Aveva visto troppo sangue scorrere sulle pietraie del Carso, troppi giovani morire sulla Bainsizza, troppi cadaveri ammorbare le acque dei fiumi e troppe donne saltare in aria con i bambini in braccio sui ponti del Tagliamento. Mai più il sangue sarebbe sgorgato per causa sua.

E quando mio padre, poco più che bambino, gli chiedeva perché si ostinasse a cacciar conigli, lui – serafico e sconcertato – rispondeva “ma che c’entra, i conigli mica sono animali! Quelli si mangiano”.

Io sono Siriana Giannone, dei Malavita, e sono la fiera erede di un uomo che, nonostante i conigli, non uccise più neanche un topolino, ché sangue ne aveva visto troppo e adesso non voleva vederne più.