... E poi finalmente suonavano le campane…

“Io mi ricordo quando cominciarono a richiamare i soldati. Lei si deve figurare che proprio a Modica era pieno di soldati, moltissimi erano camicie nere. Si comportavano arroganti, ché loro erano quelli che comandavano. 

Mi ricordo c'era un vero e proprio macello: tantissima sporcizia, fame, e il pane lo davano solo con le tessere. La notte passavano gli aerei stranieri e se vedevano luce bombardavano, allora noi dentro casa stavamo al buio oppure con la lampada a olio e tutte le finestre chiuse, che ti soffocava anche il cuore.

Non suonavano campane, suonavano solo quando c’era l’allarme perché vedevano aerei stranieri. E allora, quando suonavano le campane, nel paese correvano tutti e si nascondevano nei ricoveri e nelle grotte e appena gli aerei se ne andavano, di nuovo suonavano le campane e la gente usciva.  [...] Noi alla Sorda all’inizio non andavamo in nessun posto per ripararci: sinceramente, con i muri a secco, ci sentivamo protetti ché quelli anche con i carri armati non potevano passare con i muri a secco! 

Angela, la suocera di mia nipote Carmen, la moglie di Di Gabriele, quello che era prigioniero in Germania, mi ha detto che loro avevano paura degli stranieri perché sapevano che violentavano le donne e ammazzavano i preti perché erano senza Dio. E lei con la sua famiglia si era nascosta nella grotta e il prete aveva fatto un altare in quella grotta della colonia, a Cava d’Ispica. Avevano tutti paura: i padri per le loro figlie, i preti per la loro vita. 

Invece alla fine preti non ne hanno ammazzati e neanche l’altare alla grotta di Cava d’Ispica hanno toccato. Sì, si è saputo di donne abusate e violate. Gli inglesi lo dicevano apposta ai prigionieri italiani in Africa che appena arrivavano in Sicilia, per prima cosa, gli violentavano le mogli e le figlie. E quelli, poverini, diventavano pazzi e urlavano e li odiavano. Noi, per fortuna, avevamo gli uomini che ci proteggevano e poi noi ci nascondevamo.   

Si immagini che a Modica un giorno, vicino alla chiesa di Santa Maria, è passato un aereo straniero e un soldato si è lanciato col paracaduto forse perché era in pericolo. Incontro a lui è andato il vigile Ascenzo, che era un fascista convinto con la camicia nera per davvero, e quando l’ha visto l’ha schiaffeggiato. Lei l’ha sentito mai la guardia Ascenzo? Ecco, quello era un fascista fascista e si sentiva il padrone del paese. E a quel povero ragazzo caduto col paracadute prima l’ha preso a schiaffi e poi  gli ha tolto tutte cose di dosso, anche i soldi gli ha fregato! E se li è messi in tasca e chi s’è visto s’è visto!  

 No, no, donne non ne hanno toccate e manco preti hanno ammazzato. Però poi a lui, la guardia Ascenzo, e tanti fascisti li hanno presi prigionieri: hanno sofferto tanto. Sì, hanno sofferto anche loro. Alla fine anche loro erano figli di mamma. 


Io ero una ragazzina, avevo 16 anni e alla fine del ‘41 mi sono sposata che mio marito era militare: abbiamo passato tempi orribili.

Nel luglio del ‘43 c’è stata l’invasione e mio marito, Peppino Giunta, dormiva a casa quando due militari sono venuti a chiamarlo dicendo “siamo in allarme navale”. I nemici erano costeggiati nella spiaggia di Augusta, Pachino, Portopalo, Pozzallo, Marina di Modica e Scoglitti, dove vi furono tantissimi morti.

In giro si vedevano tanti carri armati, mio marito era con la sua compagnia a fare resistenza. Io e tutta la mia famiglia ci siamo rifugiati in una cisterna vuota alla sorda perché abbiamo capito che anche noi dovevamo riparare: eravamo più di 50 persone e senza nessuna provvista. Non si poteva uscire perché sparavano in continuazione, si sentiva come un fischio: erano bombe tirate da un forte e non si sapeva dove andavano a finire. Poi tutti quei carri armati si sono messi in cammino e le strade erano piene di mine e quando lo hanno capito passavano per i campi rompendo tutti i muri alti per passare.

Razietta Calabrese, che lei abitava nella strada per Pozzallo, mi ha detto che questi aerei stranieri passavano bassissimi e poi, quando sono usciti dalla cisterna, ché anche loro si nascondevano lì, hanno trovato tanti bigliettini. C’era scritto: “Italiani, perché morire per Hitlér?! Arrendetevi!”. 

Anche loro pensavano che con i muri a secco erano protetti e che gli americani non potevano entrare. Poi una mattina li hanno visti passare sopra i muri ché pare che manco se ne accorgevano. 

I nostri militari non hanno saputo fare resistenza perché non erano stati addestrati a tenere le armi in mano e anche se sapevano come tenerle, ché c’erano tanti uomini che avevano fatto la Grande Guerra, non c’erano abbastanza munizioni. A Pozzallo facevamo la parte che avevamo i cannoni della contraerea, ma erano di legno e servivano per farli spaventare, ma non sparavano proprio niente”. 


Modica nel 1943 non era che una cittadina del sud più a sud d’Italia in cui non ci fu resistenza e a rimetterci la pelle al momento dello sbarco angloamericano furono pochi uomini. Ce la rimise un certo Giunta che, appostato con la sua pattuglia in contrada Aguglie, capì che non avevano alcuna possibilità di fermare l’invasore. Allora aveva mandato via i suoi uomini ed era rimasto da solo a presidiare, difendere e proteggere la città. Lui in quanto ufficiale avrebbe dovuto ricevere l’onore delle armi e tutta quella prosopopea da film. Consegnarle le armi no, quella sarebbe stata una resa da vigliacchi. Invece l’onore delle armi non vollero darglielo e lui non volle consegnare le armi: e per questo fu ammazzato nello scontro a fuoco. 

Modica, dal ‘40 in poi, aveva visto i suoi figli richiamati per fare la guerra, di nuovo, come era successo con i loro padri che erano partiti per la Grande Guerra e quasi mille ragazzi non erano più tornati e quelli che erano tornati a volte erano diventati scemi, erano scimuniti re bummi

Modica, la città delle cento chiese, per anni aveva sentito il rintocco delle sue campane solo per segnalare l’arrivo degli aerei stranieri che se vedevano luci accese bombardavano e sparavano. E forse, se ci fosse stato silenzio, se non fosse stato pieno di soldati, si sarebbero sentite le preghiere delle madri che chiamavano i loro figli, quelli che nel ‘40 erano partiti e a distanza di cinque anni non erano ancora tornati. Se ci fosse stato silenzio, probabilmente, si sarebbero sentite le giaculatorie e le bestemmie dei padri, quelli che sapevano bene cos’era la guerra e che avevano visto i loro fratelli morire, che avevano conosciuto gli scimuniti re bummi, se li ricordavano quelli che erano diventati scemi. 

E poi, forse, avrebbero sentito le urla di quelle donne che partorirono dentro le grotte, al riparo dagli aerei stranieri e dalla cupidigia dei soldati, protette dalle vicine, dalle nuove amiche. 


Poi nel ‘45 c’è stato l’altro armistizio, quello per davvero

A Modica c’è stata una grande festa. Le chiese hanno suonato le campane e hanno portato in processione tutte le statue e dopo tante sofferenze si è finita la guerra.


E gli uomini sono tornati a casa e le madri hanno smesso di piangere e i padri di bestemmiare. E tanti invece non sono tornati e le loro madri, i loro padri, le loro mogli, i loro bambini rimasti orfani, loro no, loro non hanno smesso di piangere.

In corsivo le parole di Carmelina Scivoletto, nonna della mia cara amica Carmen Ottone che, gentilmente, mi ha concesso di leggerle e farle mie. 

Alle donne e agli uomini che per anni non hanno sentito le campane suonare. 

A quelli che hanno lasciato il loro cuore nei fronti di guerra o nei campi di prigionia, a quelli per cui mai più le campane hanno suonato, possa giungere la nostra carezza.