“Al freddo e al gelo”: Giuseppe Belfiore e il suo ultimo natale in Russia. 

Vi è mai capitato di avere tra le mani qualcosa di talmente bello da non volerlo neanche sfiorare? Non per paura di romperlo, quanto per il terrore di contaminarlo, di poterne adombrare la bellezza?

A me è successo con questa storia. È tanto toccante da costringermi a compiere un atto di coraggio a raccontarla, come se potessi tralasciare qualcosa e non rendere giustizia a chi non c’è più e a chi ha aspettato per tutta la vita un ritorno.


È la storia di un natale che non sapeva di esserlo, di un presepe lontano migliaia di km da Betlemme e ancora di più da Acireale. 

I genitori di Giuseppe Belfiore vivevano ad Acireale, a pochi passi dalla mia Modica, a migliaia di passi dalla Trieste del mio amico Mauro, quell’uomo col cuore grande che ha adottato i soldati della divisione Vicenza. 

Anche Giuseppe viveva ad Acireale, e poi l’hanno chiamato nell’aviazione, quando aveva 27 anni, per fare la guerra e l’hanno mandato a Reggio Emilia e poi di corsa a Brescia. 

Era anche tornato in licenza ad agosto del ‘42 per vedere la sua nipotina che stava per nascere. Non farà in tempo: il 2 settembre dovrà rientrare di corsa e di corsa andare in Russia “per difendere la patria”. “Hanno difeso un cavolo!”, sottolinea il professore Leotta. È un uomo di cultura e raffinato, si capisce sin da subito, ma non è uno sprovveduto né un illuso: andare in Russia è stato un atto predatorio contro quel paese, contro una patria altrui. 


Sarino e Maria, i genitori di Giuseppe, erano ad Acireale quel Natale con gli altri sei figli. Giuseppe era in Russia con la Vicenza a Natale del ‘42. 

Lui manda lettere a casa e racconta alla sua mamma del freddo pungente di quella terra, le racconta di un presepe vivente così diverso da quello che faceva lei. 

C’è la neve vera lì, montagne di neve bianca e candida e bianca come quel cotone che la sua mamma usava per il presepe. Non lo sa ancora Giuseppe, ma forse l’ha capito, che tra pochi giorni quella neve sarà colorata di rosso, il rosso magenta del sangue della Brambilla

Poi ci sono le grotte che però non sono scavate nella montagna, ma sotto terra, per ripararsi dal gelo, e non ci sono il bue e l’asinello a scaldare. Talvolta c’è una stufa e poi ci sono i muli che, buoni ed umili come sono, salveranno la vita di tanti soldati riportandoli indietro per chilometri durante la ritirata fino a Gomel. 

Anche lì c’è la stella cometa. Ce ne sono a centinaia nel cielo di Russia nel Natale del ‘42: il cielo è illuminato a giorno dai traccianti, quei proiettili che indicano dove colpire, dove stanare. 

C’è anche l’equivalente dello sbavintatu a stidda, che ad Acireale e nel catanese si chiama Sùsi Pastùri ed un mio amico mi ha spiegato che è il protagonista di una nenia natalizia molto diffusa da quelle parti, un’esortazione rivolta ad un pastore che si desti e accolga con i dovuti onori il neonato Bambin Gesù. 

Anche in Russia i soldati si esortano tra di loro ad alzarsi, a rialzarsi dalla neve: a -35° se ti fermi, se ti accovacci, in pochi istanti il cuore si ferma, l’anima e la vita si congelano e tu ti addormenti lì per sempre. 

 

Nel materiale che Mauro mi ha mandato per raccontare questa storia ci sono delle preghiere in dialetto, delle nenie natalizie. Lui è giuliano-dalmata, questa lingua non può capirla. Anche per me è difficile talvolta, ma l’immagine arriva subito, i ricordi riaffiorano e si susseguono. 

È il natale di quand’ero bambina, degli zampognari -così esotici ai miei occhi -  che passavano tra le stradine della Giacanta, imperturbabili nel loro abbigliamento da pastori, con le loro giacche di pelli di pecora e quel mantello che li faceva apparire dei misteriosi cavalieri neri di un tempo che fu.

È Nino, straordinario collega e amico musicista, che mi racconta di ‘Susi Pasturi’, è lui a spiegarmi i particolari, a raccontarmi delle nenie e delle cantilene. Anche lui è uno zampognaro ed anche lui è catanese. Quello è il suo mondo, la storia della sua terra. 

Quello è il mondo di Rosario e Maria, il mondo da cui Giuseppe è lontano migliaia di chilometri. E scrive Giuseppe, scrive alla sua mamma perché in cuor suo sa  che per lui non sarà mai più Natale, che la pòsta di rusàriu che lei recita durante le sue preghiere è tutto ciò che gli rimane. Lo scrive chiaramente, quasi violentemente, tanto da superare la stessa censura: “per me il guadagno è se mi guadagnio la vita”. 

Non se l’è guadagnata la vita e neanche la salvezza: Giuseppe si è perso. È uno degli 84.000 morti e dispersi della campagna di Russia, uno dei 6116 ragazzi di Mauro, i caduti e i dispersi della “Vicenza”, quella che per ridere chiamavano Brambilla perché l’avevano aggregata al corpo alpino, ma alpini non lo erano affatto. Erano fornai, musicisti, meccanici, Giuseppe era un aviere, come anche Giuseppe Procida, il ragazzo di Palermo di cui ho raccontato un paio di mesi fa. Anche lui s’è perso in Russia. 

I genitori di Giuseppe lo aspetteranno per tutta la vita e anche dopo: è disperso, non è morto! Lo inseriscono anche nel loro testamento: è disperso, non è morto!, quando tornerà troverà la sua famiglia che lo aspetta. 

È quello il vero strazio: aspettare chi non tornerà mai, illudersi ogni giorno di rivedere il suo viso, sognare di cantare insieme le strofe di natale, con gli zampognari che passano per le viuzze della città, con le loro giacche di pecora ed i loro mantelli neri come cavalieri poveri di un tempo che fu, quando il presepe si faceva con la sparacogna ed il cotone e la cometa era una sola, ad indicare la nascita di una nuova vita.


La storia di Giuseppe Belfiore è stata raccontata da Antonino Leotta, professore di Acireale che ha scritto di lui e per lui “Disperso”, un libro toccante ed emozionante, disponibile anche online, che ringrazio per la disponibilità e la preziosa collaborazione. Nel corso della nostra telefonata mi ha raccontato della sua ricerca e, soprattutto, mi ha svelato una sensibilità d’animo che mi ha toccata profondamente. Ha fatto un gran lavoro e la sua città gliene ha riconosciuto il merito: il 4 novembre, quel giorno in cui questo nostro paese ricorda il Milite Ignoto, nell’Acireale di Giuseppe Belfiore, Antonino Leotta, davanti alle autorità civili e militari, ha letto alcuni estratti del suo libro, ha raccontato la storia di un soldato della Vicenza e di una famiglia che l’ha atteso, la storia di un ragazzo di 28 anni morto per difendere una patria che non era minacciata se non dal suo stesso duce. 

Dicendomi di quel giorno, Leotta proferisce una frase che mi commuove: “insieme al Milite Ignoto, dovremmo celebrare il Milite Disperso”. Ha ragione. 

Nella mia città, nella mia Modica, 109 ragazzi sono morti o si sono persi nella neve di Russia. Per loro, ma non per tutti loro, c’è solo una lapide dietro il monumento ai caduti della I guerra mondiale, anche loro caduti senza nome, anche loro caduti per difendere una patria che nessuno aveva attaccato, anche loro dimenticati. 

Noi no, noi non intendiamo dimenticarli. 


Un sincero ringraziamento a Mauro Depetroni (www.divisionevicenza.it), che io chiamo “papà dei caduti della Vicenza” e che mi apostrofa dicendo di esserne solo il custode della memoria: e non è forse questo che fa un “papà d’ anima” con questi poveri ragazzi a cui è stata strappata la vita?


Altrettanto sincero giunga il mio grazie al prof. Nino Di Francesco per la pazienza e l’amorevolezza con cui mi ha riportata ad un tempo fuggito troppo in fretta, quando tra le vie della Giacanta gli zampognari suonavano il natale ed il mio mondo profumava ancora di pace.