16 dicembre 1942 - 16 dicembre 2022.

Ottant'anni

Ho iniziato a scrivere di guerra perché era quello che volevo fare sin da bambina. Non sopportavo l’idea che esistessero croci senza nome e senza lacrime, senza fiori, senza baci mandati in cielo. Non ho mai accettato l’idea che dei ragazzi, qualunque fosse la loro nazionalità, degli uomini, figli e nipoti certamente, padri probabilmente, non avessero restituita quell’unica “cosa che si possa riavere, dopo la morte: il proprio nome”, per citare uno splendido testo di Gabriella Gribaudi.

Non riesco a concepire l’idea che molte – troppe – famiglie abbiano sopportato per tutta la vita il dolore sordo dell’assenza, l’assenza di un corpo, l’assenza di un luogo, di una sepoltura.

Poi è arrivata Gina Gugliotta: la sua storia, quella di sua madre, mi ha toccato il cuore e mi ha fatto intraprendere il percorso che dal Basso Don, dai territori controllati dalla Sforzesca, risaliva quel placido fiume passando per quelle immense distese di ghiaccio e lacrime, di sangue e girasoli nelle quali mio nonno Pietro, detto ‘Nzuliddu, uomo dagli occhi buoni come il suo cuore, passò i suoi 16 mesi da servente agli obici. Ho imparato i nomi di quelle città, quelle stesse città dove di nuovo, ottant’anni dopo, i campi vengono concimati col sangue e con le lacrime dei soldati e delle loro famiglie, dove risuonano gli allarmi e le bombe piovono dal cielo a seminar morte.

Ottant’anni esatti dopo non è cambiato nulla se non i nomi di alcune città, solo quelli. Stalino adesso si chiama Donetsk, Charkiv si chiamava Char'kov e lì nel febbraio del ’43, in meno di una settimana, sono morte almeno 100.000 persone, russi e tedeschi. Noi ce n’eravamo appena andati. Noi, i nostri ragazzi in grigioverde con la penna nera sul cappello, i nostri della Tridentina erano riusciti a sfondare la sacca di Nikolajevka. Per noi era finita un mese e 94 o 95.000 morti e dispersi, prima.

Di questi, settantamila almeno furono presi prigionieri a partire dal 16 dicembre del 1942, quando i russi diedero avvio alla Piccolo Saturno: 22.000 non arrivarono vivi ai campi di prigionia, altri 38.000 vi arrivarono e fecero in tempo a morire lì.

Dei 70.000 prigionieri dell'Armata Italiana in Russia, ne tornarono in Italia vivi solamente 10.032.

Secondo i dati ISTAT la provincia di Ragusa nel 1936 contava 223.086 abitanti, 217.088 dei quali presenti (i restanti sono emigrati). Secondo lo stesso censimento, la citta di Modica aveva 37.936 residenti, 18.020 dei quali maschi.

Su 105.001 maschi totali presenti in provincia di Ragusa, 453 caddero - morti o dispersi - nella scellerata Campagna di Russia: il 24% di loro era nato a Modica, 108. Una percentuale spaventosamente alta se si considera che i cittadini di sesso maschile nati a Modica rappresentavano appena il 17% della popolazione maschile totale della provincia.

Centonove ragazzi di un’età compresa tra i 20 anni e i 29, eccettuando due volontari delle Camicie Nere, anche loro poco più che trentenni.

E ce li siamo scordati, Modica li ha dimenticati. Negli ultimi cinquant'anni si registra un'unica

iniziativa – peraltro privata - che vide come ingloriosa conclusione una piccola lapide nel complesso del Monumento ai Caduti della I Guerra Mondiale presente in Corso Umberto I, via principale del centro cittadino.

Non un nome, non una fotografia, solo un generico “Ai 108 caduti modicani in Russia”. Il 109°, Giovanni Gugliotta, reo di essere nato negli U.S.A., non compare tra i caduti modicani, seppur a Modica aveva fatto ritorno da ragazzo, qui aveva sposato Francesca Migliore e qui era diventato padre di Orazia e Giorgia.

Il più giovane dei caduti modicani compì 20 anni che era già prigioniero nemico. Si chiamava Emanuele Bonomo, era un fante del 129° Reggimento Fanteria “Perugia”, e la sua storia ha dell’incredibile, dell’incredibilmente drammatico. La Divisione “Perugia” dal 9 dicembre 1941 era stata impiegata in Jugoslavia, tra la Dalmazia e il Montenegro, non in Russia. Eppure Emanuele è morto nel campo di Reni il 31 ottobre 1943, nel lager n°38, insieme ad altri 396 ragazzi italiani. Eppure Nele, come probabilmente lo chiamavano in famiglia, non fa parte di quei 70.000 prigionieri dell’ARMIR. Lui era stato fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’8 settembre e finì tra gli IMI (Internati Militari Italiani), uno di quei 130.000 I.M.I. detenuti nei campi nazisti di Serbia, Polonia e Bielorussia e liberati dall’Armata Rossa nel corso del 1943. Alcuni di loro, non sappiamo quanti, anziché essere rimpatriati - spiega Maria Teresa Giusti -

“furono incolonnati e trasferiti, nel loro totale sgomento e senza spiegazioni, nei campi per

prigionieri di guerra dell’Unione Sovietica, anche in Asia centrale. I soldati semplici furono

costretti a lavorare e rimpatriarono insieme ai loro connazionali dell’Armir, a partire dall’agosto-settembre 1945. Pur essendo questi militari che non avevano mai combattuto contro l’Unione Sovietica perché non erano inquadrati nell’Armir, furono trattati da prigionieri di guerra.”

Ottant’anni dopo le bombe squarciano i cieli di Donetsk, ché quando ci stava Nzuliddu mio si chiamava Stalino.

Ottant’anni dopo i terreni Charkiv, di Kiev, di Zaporizhia sono scavati dalle bombe; i fiori di Leopoli, di Luhans'k, di Cherson, innaffiati di lacrime e sangue.

Ottant’anni dopo il cielo d’Ucraina è di nuovo gonfio di missili e preghiere, di suppliche e bestemmie.

Ho iniziato a scrivere di guerra perché era quello che volevo fare sin da bambina, ma volevo parlare di quelle guerre, della Grande Guerra e di quella di ottant’anni fa, quando i miei nonni erano partiti per il continente con una divisa grigioverde e il cuore gonfio di lacrime.

Da bambina non sopportavo l’idea che esistessero croci senza nome e senza lacrime, senza fiori, senza baci, qualunque fosse la nazionalità di quei ragazzi.

Mio malgrado non sono più una bambina, ma adesso, all’alba dei miei quarant’anni, non riesco ad accettare l’idea che i cieli vengano solcati dai missili, che ancora tuonino i cannoni, che gli uomini possano odiarsi senza conoscersi, che l’uomo non abbia imparato ad amare con la stessa facilità con cui si fa la guerra.