La via del ritorno

Quando Giovanni è tornato a casa, suo padre non l’ha riconosciuto. Da quando erano sbarcati gli alleati, da Pozzallo arrivavano militari d’ogni risma e loro vivevano proprio a due passi da lì. In quegli stessi giorni LINA, sua cugina, aveva tenuto il forno di pietra accesso per parecchie ore di seguito. Niente scacce in quei giorni, né pane di casa: non erano giorni di festa.

Erano giorni di paura.

Paura grande per le donne per via di quei soldati che parlavano una lingua incomprensibile e che sempre più spesso erano ubriachi e completamente privi di freni inibitori.

Paura per gli altri soldati, quelli italiani – che a volte anche loro parlavano lingue incomprensibili – istupiditi dalla paura, abbandonati nelle mani di ufficiali incapaci e spesso già fuggiti verso lidi più sicuri. Paura per gli “sbandati”, quei soldati scappati dal fronte che non sempre gettavano il fucile, e per i disertori che non avevano niente da perdere: se li avessero trovati i Reali Carabinieri li avrebbero passati per le armi seduta stante, li avrebbero fucilati senza lasciar loro il tempo di recitare un’Ave Maria.

Erano giorni di paura per quei ragazzi che spesso volevano solo tornare a casa e che di notte piangevano chiamando la mamma.

Erano anche giorni laboriosi, industriosi, ognuno aveva un compito ben preciso: Lina era addetta al forno, intenta giorno e notte a bruciare le divise dei soldati; le altre donne a procurare ed adattare abiti da civili a quelli che s’erano tolta la divisa; Massa Peppino e i suoi fratelli, tutti reduci della Grande Guerra, tutti e cinque mandati al fronte, si preoccupavano di nascondere le armi tra le fenditure dei muri a secco.

Massa’ Peppino Malavita, artigliere del Regio Esercito e Cavaliere di Vittorio Veneto, fiero cacciatore e socialista convinto, conosceva la follia umana e l’orrore della guerra, sapeva bene cosa succedeva alle donne che finivano tra le braccia dei soldati. E Peppino aveva una moglie che adorava ed una figlia giovanissima e bellissima, Giorgia. Quella ragazza aveva preso l’altezza da lui, lui ch’era un gigante, ed anche il portamento, aveva i suoi stessi occhi azzurri di cielo, pelle bianca di luna, capelli biondi di sole. Una perla normanna nella Sicilia degli arabi.

Gaetana, la sua giovane sposa, passava quelle calde giornate di luglio a ricamare e tessere. Novella Penelope, come la regina di Itaca aspettava il ritorno del suo uomo. Suo perché lei lo aveva generato, lei lo aveva cresciuto nel suo ventre e l’aveva partorito, lei l’aveva cresciuto con l’amore delle mamme. Suo anche se non aveva potuto far nulla quando era arrivata la cartolina con la chiamata alle armi. Era poco più che un ragazzino! Giovanni era nato il 12 marzo del ‘22, la chiamata era arrivata nel ‘42: vent’anni aveva! Gli avevano detto che se si fosse arruolato volontario nella Guardia di Finanza non lo avrebbero mandato al fronte, e lui l’ha fatto. S’è arruolato che non aveva ancora vent’anni e l’avevano assegnato all’aviazione: corpo snello e scattante, intelligenza sottile, carattere mansueto. Aviere ad Augusta prima e a Lonate Pozzolo poi. È da questo posto distante millemila chilometri che Giovanni scrive e li rassicura: c’è un colonnello compaesano che l’ha preso a ben volere e non lo manda nelle missioni a rischio.

Quel colonnello è Angelo Savarino, maggiore promosso a tenente colonnello sul campo, “instancabile pilota da bombardamento partecipò a numerose azioni, dimostrando in ogni circostanza fermezza, volontà e sprezzo del pericolo” sui cieli d’Etiopia. Uomo di poche parole, chiuderà la sua carriera militare col grado di generale, anche quello conquistato sul campo, anche quello dimostrando fermezza, volontà e onore: aveva giurato fedeltà al re, non mai a Mussolini. Neanche il proiettile che aveva solcato la sua fronte l’aveva fatto desistere: gli uomini veri si assumono tutte le responsabilità dei loro giuramenti.

Di quella cicatrice sulla fronte mi ha raccontato il figlio del Generale Savarino, Giovanni, il presidente di Dialogo. Anche in quel caso suo padre era stato uomo di poche parole e Giovanni ha scoperto delle medaglie e delle cicatrici, dell’eroismo e dello sprezzo del pericolo, solo dopo che il suo papà aveva spiccato l’ultimo volo, quell’ultimo decollo fatto troppo presto agli occhi di un figlio appena adolescente, il volo senza ritorno.

Scrive spesso di lui Giovanni ai genitori. Scrive spesso e scrive per non essere dimenticato. Lo dice esplicitamente a ogni lettera: “non dimenticatevi del vostro affezionatissimo figlio Giovannino”. E poi manda sigarette al padre in segno di rispetto, e fiori alla sorella, quella sorella bellissima alla quale riserva parole cariche d’amore e di tenerezza. Quando viene trasferito a Napoli, all’aeroporto di Capodichino, non c’è più quel compaesano. Se a Lonate il ricordo più vivido che si lascerà sfuggire di bocca sono gli stormi d’aerei che partivano e che non tornavano che in quantità esigue, a Napoli era un’altra storia. Napoli è stata la città più bombardata d’Italia: 100 incursioni aeree. Quest’estate ho letto un magnifico testo di Gabriella Gribaudi, Guerra Totale, in cui la studiosa ripercorre con il rigore dello storico e il coinvolgimento di cui solo poche donne sono capaci i 4 anni tra le bombe degli americani e le violenze dei nazisti a Napoli. I racconti riportati dalla Gribaudi, sempre suffragati dalla documentazione, sono spaventosamente simili a quello che Giovanni raccontava al figlio: quei sibili che lui ha sentito per tutta la vita, quei fischi che precedono l’esplosione, quel terrore che ti raggelava e paralizzava il corpo e anche l’anima, fino al midollo, fino al cuore. Cento incursioni a bombardare la città, a massacrarla, a distruggerla. Cento incursioni portatrici di morte e di devastazione. “E mi ricordo – racconta un uomo che ha vissuto quell’inferno - che venivano gli americani e menavene bombe a carrette, gli americani venivene ’e iuorne e gli inglesi venivene ’e notte, pecché gli inglesi bombardavano agli obiettivi, gli americani arrivavane, scaricavene e se n’ievene, arrivavano coi quadrimotori, scaricavene e se n’ievene”. È quello che Giovanni aveva raccontato a suo figlio Pippo. Era certamente a Napoli il 22 marzo del ‘43 quando, alle 5 del pomeriggio, la barca Caterina Costa, ormeggiata al porto, è saltata in aria. Un’ esplosione terrificante, spiega la Gribaudi, una devastazione che causò morti e distruzioni pari a uno dei bombardamenti più efferati.

Era una nave da 10,000 tonnellate carica di munizioni, nafta e benzina ed infine – e soprattutto – quattrocento bombe da 500 kg l’una. La nave si era incendiata tre ore prima. Gli uomini di mare dicevano di portarla al largo. Le autorità portuali si limitarono a sgomberare la zona facendola presidiare dai militari. Non ho mai saputo se Giovanni fosse tra loro. Ciò che so per certo è che la sentì, che vide quella “pioggia di detriti incandescenti, taglienti come lame di ghigliottina” su tutta la città, “ Una pioggia di ferro e di fuoco, una pioggia di spolette, di proiettili, di bossoli arroventati; una pioggia di lamiere, di brandelli di carro armato, di pezzi informi di metallo”.

Cinquantamila palazzi gravemente danneggiati, 3000 feriti, molti dei quali morirono nei giorni successivi, e 549 morti accertati.

E ripenso a Giovanni, che era poco più che un ragazzo di vent’anni, cresciuto a pochi passi dal mare, nella masseria di famiglia, tirato su a racconti della grande guerra del padre e a baci della sorella. Ripenso a lui e mi commuovo a rileggere un resoconto scritto di suo pugno per difendersi dall’accusa di diserzione. Aveva solo eseguito gli ordini del suo capitano: “chi può si salvi”. E lui era scappato dall’hangar di Capodichino assediato dai tedeschi, il 9 settembre del ‘43. Lui non era scappato, non era un vigliacco. Se c’era un disertore, ripeteva in vecchiaia, quando la malattia l’aveva fiaccato e i ricordi riaffioravano a sprazzi e con violenza, era il re, quel re malfatto e traditore della patria.

Era tornato a Modica a piedi, camminando nottetempo per evitare pattuglie tedesche e reali carabinieri.

Quando Giovanni è tornato a casa, suo padre non l’ha riconosciuto. Suo padre, Massa Peppino Malavita aveva le sue donne da proteggere e quel soldato sbandato che imboccava la strada di casa non prometteva niente di buono. Peppino non era uomo da intimorirsi: era Cavaliere di Vittorio Veneto, se n’era fatta di guerra al fronte, non era certo uno sbandato che l’avrebbe fatto arretrare d’un sol passo. Era un uomo lui, un uomo vero. Non era certo come le donne, sempre timorose. Sua moglie ad esempio che, avendo visto per la prima volta un uomo nero e per giunta in divisa, s’era spaventata tanto da farsi venire il diabete. E quelli erano giorni di paura e di confusione, d’angoscia e di violenza: per prima cosa bisognava proteggere le donne, la sua giovanissima sposa, la sua bellissima figlia. E poi bisognava pregare che suo figlio tornasse vivo, quel figlio che era a Napoli e non scriveva più da mesi.

È stata Anna Giunta, la cugina di Giovanni, a dare l’allarme, ad urlare a squarciagola per fermare Peppino che prendeva la mira: “È Vannino! Fermati: è Vannino! Vannino è tornato”. E se sua madre Gaetana aveva filato per tutti quei mesi aspettando il ritorno del suo figliolo, fu il suo cane il primo a riconoscerlo, come nella migliore delle tradizioni, come il cane Argo.

Peppino fino alla fine non aveva voluto credere ad Anna: le donne talvolta sono così impressionabili! Ma al cane scodinzolante si doveva credere per forza.

Quando Vannino è tornato a casa, suo padre non l’ha riconosciuto. Era partito che era un bel ragazzo di neanche vent’anni, cresciuto in una masseria delle campagne modicane, mai viziato ma certamente coccolato. Ed era tornato magro ed avvizzito, trascinando le sue ossa ricoperte dalla sua sola pelle, con occhi invecchiati ed un ciuffo bianco all’attaccatura dei capelli, con la morte nel cuore e il sibilo delle bombe nelle orecchie.

Giovanni Giannone Malavita non dimenticò mai che il generale Savarino non l’aveva mandato in missione, risparmiandogli la vita; non dimenticò mai il sibilo delle bombe sganciate dai quadrimotore americani durante le loro incursioni; e non perdonò mai i tedeschi per averli attaccati e ancor meno perdonò quel reuccio per essere scappato come il più vile degli uomini, lasciandoli lì a morire come topi.

Quando Vannino Malavita tornò a casa aveva un ciuffo di capelli bianchi all’attaccatura della fronte. Aveva solo 22 anni e negli occhi e nel cuore il dolore di cent’anni, lo sgomento delle bombe e delle incursioni, il terrore della morte, ed un ciuffo di capelli bianchi proprio sopra la fronte.



Di quel ciuffo bianco ho saputo solo pochi anni fa, quando mi sono risvegliata con un trionfale ciuffo di capelli bianchi proprio all’attaccatura dei capelli e mio padre, il mio Pippo dagli occhi profondi e bellissimi come quelli della sua mamma, non ha potuto far altro che constatare che quel ciuffo l’avevo preso da suo padre, da Don Giovannino Malavita.