Le due Italie e il mondo senza tempo

L’ho sempre detto a Riccardo: ci sono due Italie.

C’è la sua Italia, quella del Nord, della grande Pianura e delle magnifiche montagne, quella delle langhe e dei laghi, “con il cielo così grigio che lo devi perdonare”, come cantava Gianmaria Testa. C’è la sua Italia che c’è sempre stata, quella industrializzata, quella dei Partigiani, quella dei Savoiardi e degli Emiliani con i loro nomi meravigliosi, quella in cui se avevi la quinta elementare eri comunque ignorante.

E poi c’è la mia Italia, quella del sole violento che spacca la terra e la pelle di chi la lavora, quella delle colline ininterrotte e seducenti, con il cielo azzurro come gli occhi di mia nipote Costanza, quella “tanto bella e violenta che si dovrebbe vergognare” per citare un altro figlio del Nord, Lucio Dalla. C’è la mia Italia che è la mia terra, la mia terra cu lu cori sempri in guerra, la mia terra ca nun senti. C’è la mia Sicilia, bella e maledetta come certe traduzioni per Benedetto Croce, sospesa in un tempo passato tra gelsomini e carrubi, quella del Non si parte!, quella in cui i savoiardi si chiamano frincozza e i nomi sono quelli del santo patrono o dei nonni, quella in cui se avevi la quinta elementare eri quasi un professore.

Ci sono due Italie: l’ho sempre detto a Riccardo!

Però poi c’è un mondo e quel mondo è quello in cui le nostre strade si sono incrociate, quello in cui le anime si danno del tu, quel mondo che ha unito tutti noi. È il mondo in cui le famiglie vengono smembrate e i figli mandati a fare la guerra, in cui la terra è innaffiata con le lacrime di chi aspetta e i fiori, la neve o la sabbia si sono colorati col sangue di chi non è mai tornato, di chi non tornerà. È il mondo del dolore supremo, silenzioso e urlato, sordo e fragoroso. È quel mondo che va oltre i confini del paese e della geografia, del tempo e della storia. È il mondo dove la morte fa ancor più parte della vita e la vita è morte. Ma è anche e soprattutto il mondo dell’amore, l’amore quello che va oltre i confini del corpo, il mondo in cui le anime si incontrano e si ritrovano, si riconoscono e si stringono in un abbraccio eterno.

È il mondo in cui, sono certa, la zia Cornelia (Cornelia, che nome incredibile per me!) non ha più bisogno di fare l’infermiera nella Roma distrutta dalla guerra per cercare suo fratello Rubens; quello in cui Elger, il papà del mio amico Riccardo, con quel suo meraviglioso nome emiliano così esotico alle mie orecchie, non maledirà il momento in cui ha indossato la divisa.

Ne sono certa, lo so: esiste un mondo in cui un giorno senza data viene scattata una foto che ritrae la famiglia Bulgarelli al completo.

Chiudo gli occhi e la immagino, la sento prima ancora che vederla: sono tutti attorno alla tavola imbandita, a mangiare i quadratei in brodo di nonna Adalgisa, ad affettar prosciutto crudo. C’è nonno Riccardo, vero e proprio “uomo simulacro”, sempre un po’ burbero, con quel suo contegno da uomo d’altri tempi; e poi ci sono ‘Erio' (che in realtà si chiamava Fermo, sottolinea Riccardo, come se per me fosse un nome “normale”!), Corinno, Cornelia, Ines, Ada, Elger e l’eterno bambino di casa, Rubens. Già, Rubens, il ragazzo sempre col sole dentro, con la battuta pronta, con la risata in agguato, col vestito che aveva indossato quando s’è sposato con Anna Poletti, quel vestito con cui l’anno prima Elger si era sposato con Santina.

Che zio Rubens fosse un burlone - e tutto il resto su di lui - il mio amico Riccardo l’ha scoperto da grande, quando aveva iniziato a cercare di ricostruire la carriera militare del suo papà e, per quel caso che so non esiste, dall’Archivio Storico di Carpi oltre ai documenti di Elger erano saltati fuori quelli di Rubens.

E Riccardo ha iniziato a cercare e cercare ancora suo zio disperso e mai tornato dalla Russia, a cercare per ricostruire i suoi movimenti, per capire dove potesse trovarsi ciò che rimaneva di lui, cercare per riannodare i fili di una famiglia che ha visto tre dei suoi quattro figli maschi partire per la guerra, con una divisa grigioverde e la morte nel cuore, e le due figlie femmine con gli occhi pieni di lacrime e l’anima in panne.

Quella di Riccardo è stata una ricerca lunga e complessa sin dall’inizio, sin dalla confusione sul reparto di appartenenza, fino alla leggenda di chi ha visto Rubens addormentarsi in un pagliaio e sparire per sempre.

Lo ha cercato all’Archivio Segreto del Vaticano e lì ha trovato ben tre schede d’interrogazione per suo zio Rubens: una firmata dallo zio acquisito Enzo il 19 febbraio del ‘43, una di nonno Riccardo il 25 marzo di quello stesso anno, entrambe scritte a macchina e formali; ed infine una di zia Cornelia, con una data strana e già avanti nel tempo, il 17 settembre del 1943, scritta a mano, un messaggio per il suo fratellino, per il piccolo di casa di 11 anni più giovane di lei, quel ragazzone che lei ha cresciuto come fosse il suo stesso figlio: “Attendiamo con ansia tue notizie. Baci, Cornelia”, come se sapesse ch’era ancora vivo.

Rubens non ha mai risposto e forse, chissà, anche per questo dolore il cuore ancor giovane di Cornelia non ha retto e lei avrà per sempre 41 anni.

Non l’hanno trovato, nessuno ha mai più ritrovato zio Rubens. Né Riccardo, nonostante la sua ricerca certosina da vero storico di professione, né zia Cornelia, nonostante il suo messaggio: Rubens s’è fatto vento, s’è fatto cielo e terra e neve e polvere da sparo.

Apparteneva al LXIII Gruppo Artiglieria motorizzata obici da 210/22, dipendente dal 9° Raggruppamento d’Artiglieria d’Armata, un corpo d’élite, con obici molto grandi e troppo costosi per noi, mandati lì più per far bella figura con i tedeschi che per farci vincere la guerra.

Ed è sulle tracce di Rubens che Riccardo ha trascurato il suo Elger, che era militare di carriera e quand’era a Firenze era stato fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in Germania. Era nato nel 1913 e viveva a Quartirolo, una frazione di Carpi. Poi, non so quando, si era trasferito a Torino e lì è nato il mio amico Riccardo. Elger non ha mai raccontato nulla della guerra né della prigionia. Non ha raccontato nulla o forse a suo figlio ha detto tutto ciò che c’era da sapere, gliel’ha fatto leggere in quel taccuino che ha lasciato che lui trovasse, quello in cui erano segnati alcuni appunti durante la prigionia, quel taccuino in cui, proprio alla fine, in calce, Elger aveva scritto “Maledetto il giorno in cui ho indossato la divisa”.

Maledetto il giorno in cui hai indossato la divisa, Elger! Maledetto il giorno in cui l’hanno indossata quei ragazzi che, come te, l’avevano messa più per disperazione che per quelle idee balzane di Mussolini e accoliti. E maledetto il giorno in cui t’hanno fatto prigioniero e deportato in Germania, quello in cui hanno chiamato i tuoi fratelli a far la guerra, ché gli occhi di tua madre sono ancora gonfi di lacrime per quel suo figliolo di poco più di vent’anni che s’è addormentato in un pagliaio e nessuno l’ha mai più rivisto.

E benedetto sia il giorno in cui sei tornato a casa, in cui tutti voi siete tornati dalle vostre famiglie. Benedetto il giorno in cui è nato tuo figlio Riccardo, che è mio amico ed è un uomo dal cuore buono e dallo spirito nobile, che continua a cercare tuo fratello Rubens lì, nella steppa gelida, in quel ghiaccio fatto delle lacrime dei nostri ragazzi mandati a morire. E benedetto il giorno in cui ha scritto Fronte del Don, il libro in cui, senza saperlo, racconta di te e di sé prima ancora che della ricerca di Rubens.

Ed infine benedetto sia il giorno in cui io ho incontrato tuo figlio Riccardo e le donne e gli uomini col cuore bambino di Fronte del Don, che m’insegnano tanto, ma soprattutto mi fanno vedere e credere nella bellezza collaterale delle cose, quella bellezza che – se non salverà il mondo – almeno lo rende un posto migliore.

Ciao Elger, ancora una volta ha ragione tuo figlio: hai un meraviglioso nome emiliano!