Angelo, Rosario e i fili rossi


A volte sembra che le vite degli uomini siano unite tra loro da un sottile filo che lega i loro destini inesorabilmente.

Nel caso di Raffaele Calabrese e Angelo Pitino, invece, i fili furono almeno due, entrambi rossi, seppur con sfumature incredibilmente differenti.

Rosso come l’amore che ha unito la figlia dell’uno, Orazia, al figliolo dell’altro, Rosario.

Rosso come il sangue che entrambi hanno visto scorrere a fiumi tra i fiumi, tra il Tagliamento e il Piave, tra l’Adige e il Brenta e l’Isonzo.

Entrambi, Raffaele ed Angelo, hanno combattuto al fronte durante la Prima Guerra Mondiale, rintanati nelle trincee o nascosti dentro un buco, una grotta, con l’unica speranza di tornare a casa dalle loro famiglie.

Raffaele, classe 1896, fu chiamato al fronte sin dallo scoppio della guerra e fece ritorno a casa 4 anni dopo. Assegnato al reparto di Artiglieria a cavallo, già dal primo giorno al fronte capì che quelli che l’aspettavano sarebbero stati giorni molto difficili.

Sappiamo che durante la Grande Guerra fu scritto un impressionante numero di lettere dal fronte, ma sappiamo anche che la stragrande maggioranza dei soldati del Regio Esercito era pressoché analfabeta. E se sei nato in una piccola cittadina dell’Italia Meridionale alla fine del XIX secolo e non in una famiglia ricca, difficilmente sarai in grado di leggere o scrivere o, peggio ancora, parlare l’italiano.

Ciò di cui spesso non si tiene conto, infatti, è proprio l’impossibilità di comunicare che questi soldati incontravano.

Provate ad immaginare un ragazzo cresciuto nella campagna modicana, che aveva frequentato sì e no un anno di scuola, e che di quell’anno conservava il ricordo di come scrivere il proprio nome e cognome. Adesso provate ad immaginare il suo sgomento quando gli venne ordinato da un suo superiore di “abbassare il tallone”. Provate infine ad immaginare la frustrazione di un ufficiale del Regio Esercito, certamente non di umili origini né mai frequentatore del sottoproletariato agricolo siciliano - nato e cresciuto com’era nel Nord Italia - che, ripetuto per l’ennesima volta l’ordine di abbassare il tallone, vedeva il soldato Calabrese calare la punta del piede con forza e convinzione. Fu forse quella frustrazione e quella rabbia malcelata a spingere l’ufficiale a colpire con violenza il cavallo montato dal povero Raffaele, che subito s’imbizzarrì e si diede alla fuga. Io non so se il signor Calabrese fosse stato guidato dall’esperienza di cavallerizzo o solo dall’istinto di sopravvivenza, certo è che s’aggrappò alla criniera del destriero, salvandosi da una caduta rovinosa e, forse, da una fucilazione immediata.

Evidentemente il fatto non passò così inosservato, visto che il giovane fu riassegnato al vettovagliamento e mandato in prima linea la sera stessa. E proprio quella sera, al suo arrivo nelle trincee, mentre percorreva quei lunghi e sudici pertugi, pensò che quei poveri ragazzi che dormivano lì sotto la neve dovevano davvero essere stanchi. La mattina dopo il soldato Raffaele Calabrese, alla sua prima mattina al fronte, scoprì che quei ragazzi non stavano dormendo rannicchiati tra di loro, né stavano tentando di ripararsi dal gelo delle montagne. Erano ragazzi, proprio come lui. Erano ragazzi. Ed ora non erano che corpi senza vita ammassati in un angolo delle trincee italiane.

Tra le tante cose che Orazia mi ha raccontato in quella splendida serata ce n’è una che mi ha sinceramente colpita e mi ha detto tanto di un uomo che non ho mai conosciuto, che non ho mai visto neanche in una fotografia. Lei, Orazia, è piuttosto anziana e mi ha raccontato tutto da seduta, con le spalle curve sotto il peso di tanti anni e di una vita difficile e dura, in cui gli agi sono stati pochi ed il lavoro – invece – è sempre stato tanto.

Ad un tratto, però, mi ha raccontato di come il padre non dimenticò mai di essere prima di tutto un uomo per bene, un uomo che non permise mai all’odio di avere il sopravvento. Quando infatti il commilitone di guardia con lui gli suggerì di sparare ad un ragazzo “con la divisa di un altro colore”, esposto come una banderuola al fuoco nemico, Raffaele si rifiutò categoricamente. E quando il commilitone prese ad inveire contro di lui perché si ostinava a non voler prendere la mira, Raffaele si rifiutò ancora e convintamente disse: “è solo un ragazzo, un povero disgraziato come noi.”.

È qui che Orazia compie un gesto tanto inaspettato quanto saturo dell’amore verso il padre e riconoscente della di lui bontà. Se foste stati seduti accanto a me avreste visto questa eccezionale donna alzarsi, con le spalle dritte, lo sguardo carico d’orgoglio, e la voce – prima tremante – ora chiara e limpida riportare le parole del padre, che in un impeto di umanità – ma anche di coraggio diremmo – avvertì il commilitone con queste poche parole “se lo ammazzi, io ucciderò te!”.

Raffaele sopravvisse a tutte le battaglie dell’Isonzo e fu un eroe di Vittorio Veneto, come il suo futuro consuocero, l’alpino Angelo Pitino, che aveva un carattere ben più sanguigno e che si seppe far rispettare a suon di ceffoni anche dai “Polentoni” più arroganti.

Anch’egli fu chiamato al fronte che era ancora ragazzo ed anch’egli regalò alla “Matre Padria” di rabitiana memoria quattro anni della sua gioventù e certamente gran parte della sua anima, dopo aver passato tre giorni e tre notti legato ad un palo per aver aggredito un superiore, in attesa che il fuoco nemico lo eliminasse. Così non fu.

C’è solo una piccola grande differenza tra Angelo e Raffaele.

Il primo essendo vissuto ancora a lungo, ricevette la nomina a Cavaliere di Vittorio Veneto, la Croce al Merito di Guerra e, nel cinquantenario della fine della Grande Guerra, una medaglia al valor militare.

Raffaele invece, classe ’96, fece in tempo a farsi altri 4 mesi di guerra all’inizio degli anni Quaranta. Anche lui fu Cavaliere di Vittorio Veneto e involontario collezionista di medaglie al valore. C’è solo un’altra nota amara in una storia tanto terribile. Né a lui né ai suoi eredi spettò la Medaglia al Valor Militare della Repubblica consegnata nel 1968 a tutti i soldati che avevano combattuto nella Grande Guerra. Raffaele era già morto e la Patria, forse, s’era già scordata di lui.