Le cisterne ed i fantasmi

Quando mi è capitato di chiedere di raccontarmi della guerra a persone nate o vissute in quegli anni, loro si sono affrettate a raccontarmi la storia dei loro cari o a sottolineare che i loro papà o i loro zii non amavano parlarne. Quasi nessuno di loro, più sovente signore, s’aspettava la mia domanda che, invece, arrivava puntuale a stranirle: ma voi come avete vissuto quegli anni?

Ed in ogni racconto che ho avuto la fortuna di ascoltare ed in ogni lettera che ho avuto l’onore di leggere, ci sono delle costanti che tornano in tutta la loro drammaticità.

C’erano in quegli anni delle sgradite compagne di vita che si dimostrano tanto prevedibili quanto costanti: la fame su tutte, le campane e le cisterne.

Ebbene sì, le cisterne sono diventate in quegli anni il ricovero notturno di molte famiglie e la vera e propria prigione delle donne più giovani.

Se è vero - come lo è - che la guerra abbrutisce, è anche drammaticamente vero che il senso di potere inebria e, talvolta, ottunde le menti. E se a quello aggiungete l’arroganza che contraddistingueva le camicie nere, e l’alcol che fin troppo spesso bagnava le loro gole, capite che le donne, soprattutto quelle più giovani e indifese, erano quanto di più prezioso da proteggere.

Ricordo con grande tenerezza la cara signora Orazia di cui ho già tante volte parlato, che mi raccontava di come loro non si nascondessero nelle cisterne: la notte, durante i bombardamenti aerei, li proteggeva il sottotetto nel quale erano nascosti e per i carri armati che avanzavano c’avrebbero pensato i muri a secco. Immagino il loro sgomento quando hanno visto i carri armati americani oltrepassare quei muri come coltelli nel burro!

Un racconto che mi ha particolarmente intenerita è stato quello di Pina Nanì, una dolcissima ottuagenaria a cui sono particolarmente affezionata. Il suo papà, quasi quarantenne, era stato richiamo alle armi e mandato a Scoglitti. Lei, che era poco più che bambina, ricorda quei mesi come contraddistinti dal pianto. Quasi emozionata, infatti, mi ha raccontato di quanto avesse pianto perché non voleva essere calata nella cisterna e di quanto pianse quel giorno che la zia con i cugini andarono a vivere da loro. E quando le ho chiesto perché proprio quel giorno, lei mi ha spiegato che in realtà non l’aveva chiaro quella bambina che era al tempo, ma che vedeva tutti piangere e allora lo faceva anche lei. Pina, che non voleva entrare nelle cisterne e che cercava il suo papà richiamato in guerra a Scoglitti, ha capito dopo qualche giorno perché tutti piangevano. Il padre, seppur non al fronte e per quanto vicino casa, era stato coinvolto in un conflitto a fuoco durante lo sbarco degli americani. Di lui avevano trovato solo l’elmetto con un buco in centro, null’altro. Neanche il cadavere da restituire alla famiglia vicina per le esequie, per l’ultimo saluto, per guardarlo un’ultima volta, consapevoli che nella bella fronte c’era il buco del proiettile. Sarà stato preso in pieno da una bomba e, sicuramente, del corpo non sarà rimasto nulla. E piangevano tutti in quella casa. La guerra è così, sempre e dovunque tu la combatta. Che tu sia in Russia a patir fame e freddo, o in Africa “morto di fame e secco di sete”, la guerra ti uccide. E la zia Pina, come amo chiamarla, che mi aveva raccontato tutto questo con gli occhi bassi, persi tra i ricordi e la nostalgia, trattenendo le lacrime martoriando le sue stesse mani, subito dopo ha alzato la testa e con quel suo sorriso amorevole è scoppiata a ridere. Ammetto di essere rimasta piuttosto stranita da una risata così stridente con la drammaticità di quello che mi stava raccontando. E sono certa che lei se ne fosse accorta, perché è andata di corsa a prendere una fotografia e, fiera, mi ha mostrato il suo papà in uniforme, felice e corpulento. A Scoglitti, infatti, Rosario Nanì, serviva come cameriere alla mensa degli ufficiali, incarico che gli garantiva tanto cibo quanto a Modica, da civile, non aveva neanche osato sognare. Era stato davvero fortunato Rosario: a due passi da casa e col cibo garantito. Era stato tanto fortunato che, quando un proiettile bucò in centro il suo elmetto, gli sfiorò appena i capelli e lo lasciò totalmente illeso. Di paura però ne aveva avuta talmente tanta da essersi rintanato così bene che oltre che i nemici, non erano riuscito a trovarli neanche i suoi commilitoni.

E rideva la Zia Pina raccontandomi di come qualche settimana dopo il fantasma del padre s’era presentato a casa nottetempo, venuto a Modica da Scoglitti con la bicicletta che un uomo gli aveva prestato, e chiedendo addirittura di entrare in casa. E la risata era diventata davvero fragorosa quando ripeteva quella scena del fantasma del padre che aveva le fattezze di un uomo in carne ed ossa, affaticato e felice di ritrovare le donne della sua vita.

E subito dopo l’ilarità del momento, la Zia Pina, è tornata seria e mi ha raccontato di come tutti ridessero, tutti tranne una sola persona, la sua nonna. Mi ha detto che lei non la ricorda mai senza le lacrime agli occhi. Aveva pianto tutti i giorni della sua lunga vita la povera nonna, da quando suo figlio Luca era partito per la Prima Guerra Mondiale e lei non l’aveva mai più rivisto.

E tutto piomba di nuovo nella tristezza: nulla di buono dalla guerra.

L’ultimo aneddoto di quel giorno è stato forse il più straziante. Sapeva bene di essere stata davvero molto fortunata ad avere ancora il suo papà, ma in tanti non videro più i loro uomini. C’era stata ad esempio una signora di Modica Alta, fresca sposina allo scoppio della guerra, che per anni apparecchiò la tavola con il servizio buono, quello delle grandi occasioni, e preparò un piatto di pasta al pomodoro per il marito.

E lo aspettò, ogni giorno della sua vita, ed ogni giorno della sua vita preparò quel piatto di pasta per un soldato che mai più fece ritorno.