La Lingua della guerra,

le Parole della memoria

Per questo mese avevo deciso di scrivere di un uomo che ho avuto la fortuna e l’onore di conoscere e che, suo malgrado, si è trovato a vivere in prima persona l’orrore dei campi di concentramento durante la II Guerra Mondiale. Volevo scrivere di lui ed aspettavo solo di incontrarne la vedova ed i figli per raccogliere quante più informazioni possibile, oltre a ciò che lui stesso aveva avuto modo di raccontarmi.

Poi la zona rossa e l’impossibilità di spostarsi ed incontrarsi.

Questo però non mi ha impedito di continuare le mie ricerche, di cercare di conoscere la realtà vissuta da questi ragazzi, di trovare altre persone disposte a raccontare la loro esperienza e condividere i loro ricordi.

Quest’attesa non è stata vana, giacché mi ha dato modo di riflettere sul percorso che ho intrapreso e sulle mie scelte in tal senso, a cominciare dal titolo che ho voluto dare inizialmente alla rubrica, poi divenuto titolo del primo articolo: “La guerre, je vous dis la guerre”.

Il merito di una frase tanto evocativa non è certo mio. La frase fu usata da Ferdinand De Saussure, padre della linguistica generale, per spiegare la differenza tra Parole e Langue, identificando la prima con atto individuale, mentre la seconda corrisponde ad un atto collettivo.

Niente timori, è molto più semplice di quanto non sembri. Ripensate a quella frase: “La guerra, io le ho detto la guerra”. Ascoltate la vostra stessa voce mentre la leggete e vi accorgerete che la prima volta che pronunciate la parola Guerra avete compiuto un atto individuale, avete pronunciato una delle tante parole che conoscete. Ma la seconda volta no, la seconda porta con sé tutto il suo valore collettivo, condiviso. La seconda volta che avete pronunciato quella parola, avete evocato in voi tutto ciò che una guerra è: orrore, morte, devastazione. E l’orrore, la morte e la devastazione in guerra sono per tutti. Non ci sono vincitori, ci sono solo vinti: l’umanità stessa è vinta.

Per me quella parola è carica di ricordi e reminiscenze, di racconti e, in un certo senso, di focolare. Entrambi i miei nonni hanno combattuto durante la II Guerra Mondiale, i nonni dei miei amici l’hanno combattuta, tutti noi, in un modo o nell’altro, ci ritroviamo indirettamente accanto a persone che l’hanno vissuta.

Allora raccolgo le idee, scavo nella memoria e mi scopro commossa ancora una volta. Ricordo con profonda tenerezza una donna di cui mi raccontò la mia splendida prozia Lina. Era una sua vicina di casa che, tutti i giorni, pedibus calcantibus, da Minciucci si recava alla caserma dei Reali Carabinieri di Zappulla per aver notizie del figlio chiamato alle armi giovanissimo. Non so altro. Né dove fu mandato, né con quale unità, neanche il nome di quel ragazzo. So soltanto che lei andava tutti i giorni in quella caserma per avere notizie del figliolo e tutti i giorni portava con sé qualcosa da regalare al piantone di turno. Una sorta di timore reverenziale o di captatio benevolentiae, quasi che il milite potesse avere un qualche potere nel proteggere il figlio. Ebbene, il figlio certamente no, ma la madre i carabinieri di Zappulla avevano cercato di proteggerla. La zia Lina mi raccontò di come tutti sapessero che il figlio era morto ammazzato praticamente subito, ma nessuno aveva avuto il coraggio di dirlo alla madre, consapevoli del dolore disumano che le sarebbe stato arrecato. Solo un giovanissimo carabiniere, mandato chissà perché in una sperduta caserma di una piccola città del Sud Italia non era stato informato dell’omissione e, con poco tatto le domandò cosa andasse cercando, visto che il figlio era morto stecchito da chissà quanto tempo.

So bene che scene come questa si ripeterono fin troppe volte, ma non riesco tuttavia ad immaginare quanto dolore abbia potuto provare quella madre che, col cuore straziato, si accasciò in quella stessa stanza ed esalò il suo ultimo respiro.

Grazie ad un fortunato caso poi, sono venuta a conoscenza di un sito internet nel quale sono stati raccolti tutti i dati relativi agli IMI, gli Internati Militari Italiani, nei campi di concentramento nazisti tra il 1943 ed il 1945. La ricerca, per quanto complicata dalla necessità di aggiungere almeno il cognome, dà informazioni drammaticamente preziosissime.

E, gioco forza, il primo cognome è stato il mio. Ammetto che ho avuto non poche difficoltà a trattenere le lacrime quando ho trovato un omonimo di mio padre, il sergente Giuseppe Giannone, matricola militare numero 28065, catturato a Trieste il 10 settembre del 1943. Non so nulla di quest’uomo. Se lo chiamassero Peppe o Pippo, come il mio papà, se fosse sposato o avesse dei figli. Nulla oltre al fatto che non fece mai ritorno a casa.

Ripenso poi a quanto mi ha raccontato la mia cara amica Sandra che, da piccina, non riusciva a spiegarsi perché nella famiglia paterna ci fosse un simile quantitativo di Rosario Spadaro. E la ragione, purtroppo, è comune a moltissime famiglie: Rosario era lo zio del padre, partito poco più che ragazzino per fare la guerra, preso prigioniero e mai più tornato.

Ripenso al nonno della mia cara amica Margherita che, tornato a piedi dalla Russia dopo 7 anni di prigionia, non riconobbe nessuno dei membri della sua stessa famiglia.

Ed infine mi ricordo di un uomo di cui tanto spesso mi hanno raccontato e di cui conosco da sempre il figlio, ma che non ricordo di aver mai incontrato. Eppure la fotografia presente sul sito è inequivocabile: per quanto non abbia mai saputo il nome, quel ragazzo della foto è certamente il padre di Nino. Salvatore Abate era nato il 18 ottobre del 1920, fu preso prigioniero dai tedeschi sul fronte greco il 12 settembre del 1943 e spedito prima a Fürstenberg, ad est di Berlino, e poco dopo a Marienburg, poco distante da Danzica. Nei due anni che lo videro prigioniero, Salvatore pelava le patate per il rancio dei prigionieri per tutto il giorno, mentre la notte sgattaiolava e rovistava nella spazzatura, alla disperata ricerca di quelle stesse bucce di patate da mangiare, pregando forse Iddio che non lo sorprendesse qualche kapo.

Della prigionia si è scritto e detto tanto, della signora di Minciucci, dello zio Rosario, di quel Giuseppe Giannone omonimo del mio amato papà, di Salvatore, purtroppo no. Loro sono gli eroi inconsapevoli della storia, la loro gioventù spezzata la cifra di un quinquennio folle e disumano.

A loro il mio più sentito affetto.