Natale in prigionia. Servilio Menichelli, artigliere scelto della Pasubio
- Ma frati, hai visto? Alla fine si sono trovate!
- Hai ragione, Nzuliddu, doveva succedere prima o poi.
- Servilio, tu che sei uomo con le scuole alte, hai raccontato tutto tutto a tua nipote Annalisa?”
- Ma se ho la quarta! Tu invece, a tua nipote che racconta tante storie, gliel’hai raccontata davvero com’è andata?”
- No, ma frati, io niente raccontavo. E poi pupidda era troppo piccola, non avrebbe capito”
- Io qualcosa raccontavo e poi ho conservato tutto. Che dovevo raccontare? Il freddo? L’orrore? Che dovevo raccontare? Andavo da mia nipote Annalisa e le dicevo: Manichelli Servilio, di Giusti Regina e Bonifacio, sopracciglia folte, viso e naso regolare? mento ovale e colorito roseo? buttero con la 4° elementare?
- No, dovevi raccontare che eri alto come una colonna e quando hai fatto la visita ti hanno riformato: 153 cm!
- Sì e infatti poi mi hanno mandato a Lucca a fare l’artigliere!
- Ma tu mica era siciliano, a te le licenze le davano!
- Sì, in tempo per cambiare città e farmi il regalo di compleanno: a Verona! E per farsi perdonare il ritardo nel regalo, ché io il compleanno lo faccio il 15 settembre, a febbraio del ‘42 mi hanno mobilitato e assegnato allo C.S.I.R.!
- Ma allora sei partito volontario?
- Ma figurati! Mi volevano togliere di mezzo! Un metro e cinquanta e mi mandano al fronte nella fanteria!?
- Ma, scusami, non eri nell’artiglieria? Nella Pasubio, insieme a me?
- Sì, perché ero talmente felice di andare in Russia volontario che mi sono venuti gli orecchioni e sono rimasto a casa per un mese e mezzo. E poi, una volta tornato, mi hanno dato il benvenuto a Treviso: comando artiglieria del XIX C.A. di Bolzano. Poi mi hanno congedato di nuovo. Però si vede che lo sapevano che io i fascisti non li sopportavo e per il compleanno dell’asino di Predappio sono arrivato direttamente in Russia: artigliere scelto della “Pasubio”. E poi, caro mio, è stato l’inferno.
Che bel natale che ho passato, eh! Se ci penso mi viene da piangere.
- Io ero già sul treno per tornare in Italia. Loro ci hanno creduto e nessuno mi ha chiesto più niente.
- A me m’hanno preso prigioniero. Ah, Nzuliddu, non te lo puoi immaginare cos’abbiamo visto, non si può sapere! E poi il freddo, sempre quel maledetto freddo! Freddo che ti entrava nelle ossa e ti gelava anche l’anima! Neve bianca, fame nera e sangue e morte dappertutto. Freddo, Nzuliddu, e botte e non ti potevi fermare mai. I feriti, poveri ragazzi, quelli che erano negli ospedali da campo, li hanno eliminati subito. Via! Una raffica e al Creatore. A noi l’anima c’hanno ammazzato! Ci hanno caricati sui treni bestiame, ma peggio delle bestie! Ci hanno chiusi dentro i vagoni? Vagoni? No, quelli erano manicomi, quelli erano cimiteri e cessi pubblici. Quello non era un posto per cristiani. Ogni tanto aprivano, ci buttavano un po’ di pane nero e una specie di acqua calda che loro chiamavano brodo con i cetrioli. E poi prendevano quei poveri ragazzi che erano morti e li buttavano giù, in mezzo alla neve, in mezzo alle rotaie, che manco la spazzatura si butta così. Questo eravamo: spazzatura dell’umanità, rifiuti umani. A volte entravano i soldati russi ubriachi e ci sparavano, ridevano e ci sparavano addosso, come il tiro al bersaglio. E noi avevamo paura e pregavamo, ma Dio non ci ascoltava, e allora bestemmiavamo, ma non ci sentiva neanche così. E io guardavo quelli che pregavano e dicevano “S. Gennaro, aiutami tu” e gli arrivava un colpo secco e morivano! E l’altro “Sant’Antonio, salvami” e moriva anche lui. E allora ho pensato che mi conveniva non pregare più che possibilmente poi m’ammazzavano. E io pensavo che finito il viaggio nei carri delle bestie che eravamo, poi le cose sarebbero migliorate. Cosa doveva migliorare? Un pezzettino di pane nero, una scodella di quella cosa annacquata con i cetrioli. La fame, la fame ci ha ammazzati. Piano piano, si moriva come le mosche, ad uno ad uno, per la fame e per il freddo. E poi le botte! Quante botte! Bastava che qualcuno voleva diventare amico delle guardie e diventava “collaborazionista”: s’inventava una cosa su di te e loro ti massacravano. Senti, Nzuliddu, io mi sono fatto tre anni di prigionia, ma infame mai! L’ho fatto scrivere anche nel foglio matricolare: “nessun addebito durante la prigionia”, che significa mai collaborazionista. Mai! E poi, dopo che li massacravano fino ad ammazzarli, quando non c’aveva già pensato la fame, ti toglievano tutto, anche le mutande. La “spoliazione” la chiamavamo: orologi, catenine, le giacche, le pezze dei piedi. Mi avrebbero potuto ammazzare, ma io la mia dignità di uomo non la scambiavo con niente. La dignità, almeno quella, non me l’hanno tolta.
- Ahi, Servilio, ha ragione tua figlia Regina: sei un agnello travestito da lupo! Avanti, non piangere. Ormai siamo in paradiso, mangiamo tutti i giorni e c’è caldo. Io coltivo i limoni, tu i noci. E poi lo vedi anche tu, no? Le tue nipoti ti hanno dato tante soddisfazioni! Fabiana che è biologa e lavora con i mericani. Nicholas sei tu in miniatura. E poi te la ricordi Annalisa quando si è laureata? Sempre con la sigaretta tu, mi raccomando! Eri così emozionato che solo la tenevi in mano senza fumarla.
- Lo sai, all’inizio, quando eravamo nei campi di smistamento, capitava che venivano i reparti corazzati russi e prendevano alcuni prigionieri italiani, li facevano distendere sulla neve e poi ci passavano sopra con i cingoli. Manco alle bestie si fanno queste cose. E quando ho pensato che avevamo toccato il fondo dell’inferno, loro ci hanno fatto scavare ancora più in fondo. E abbiamo iniziato a camminare. Noi camminavamo e morivamo, e loro urlavano Davai, Davai (avanti), e se ti fermavi o rimanevi indietro, ti sparavano in testa. E quando non avevano il fucile di certo non dovevano sforzarsi, ché a 40, 50 gradi sotto zero, ti bastava star fermo dieci minuti per rendere l’anima a Dio. E ho negli occhi tutti quei ragazzi che morivano e s’inginocchiavano e piangevano. E noi non potevamo fare niente, non potevamo aiutarli, non potevamo fare niente. E loro urlavano davai, davai, e loro morivano nella neve e noi morivamo nell’anima. 2000 km, duemila chilometri a piedi, con la neve e il ghiaccio d’inverno, il fango a primavera e poi ancora la polvere d’estate. L’inferno in terra io l’ho visto con i miei occhi, in Kazakistan, a Pacta Aral e a Taliza, e poi vicino Mosca, a Tambov. Tu lo sai quanti ragazzi sono morti? A Taliza 2241 prigionieri e ottomila centoventisette a Tambov. Tu sai cosa significa? Siamo partiti che eravamo 220 mila, Nzuliddu, novantamila ci hanno presi prigionieri o li hanno ammazzati. Tu lo sai in quanti siamo tornati? Dodicimila centonovanta tre. Te lo dico di nuovo? 12.193. E tu pensi che siamo tornati vivi? Siamo tornati con l’anima ammazzata dal freddo, dalla fame, dal tifo petecchiale.
- Io ho sentito freddo tutta la vita, mi sono portato il freddo e i morti nel cuore per tutta la vita. La notte mi svegliavo urlando e mi sognavo le bombe e un mare bianco tutto macchiato di poveri ragazzi morti. Ce li siamo portati dentro tutta la vita quei morti. Siamo morti anche noi, ci hanno ammazzato l’anima. E poi siamo tornati a casa e abbiamo fatto finta di dimenticare, di non sentire più le urla e i boati dei cannoni, abbiamo fatto finta di non vedere più i morti lungo le strade, di non guardare le distese di cadaveri. E abbiamo pianto di nascosto che - si sa - le lacrime, per fortuna, non fanno rumore.
- Però niente riso, Nzuliddu!
- Manco ammazzato, Servilio!
A Servilio Menichelli, artigliere dell’VIII reggimento d’artiglieria Pasubio dal 10 luglio al 22 dicembre 1942 e prigioniero dei russi da quel giorno al 24 novembre 1945.
A mio nonno Pietro, detto Nzuliddu dai suoi “fratelli”.