Storia di un nonno, di una nipote e di un ciuffo di capelli bianchi.

Quando Giovanni è tornato a casa, suo padre non l’ha riconosciuto.

Da quando erano sbarcati gli alleati, da Pozzallo arrivavano militari d’ogni risma e loro vivevano proprio a due passi da lì. In quegli stessi giorni Lina, sua cugina, aveva tenuto il forno di pietra acceso per parecchie ore di seguito. Niente scacce in quei giorni, né pane di casa, non erano giorni di festa: erano giorni di paura.

Paura per gli “sbandati”, quei soldati scappati dal fronte che non sempre gettavano il fucile, e per i disertori che non avevano niente da perdere: se li avessero trovati i Reali Carabinieri li avrebbero passati per le armi seduta stante, li avrebbero fucilati senza lasciar loro il tempo di recitare un’Ave Maria.

Erano anche giorni laboriosi, industriosi, ognuno aveva un compito ben preciso: Lina era addetta al forno, intenta giorno e notte a bruciare le divise dei soldati; le altre donne a procurare ed adattare abiti da civili a quelli che s’erano tolta la divisa; Massa’ Peppino e i suoi fratelli, tutti reduci della Grande Guerra, si preoccupavano di nascondere le armi tra le fenditure dei muri a secco.

Massa’ Peppino Malavita, già artigliere del Regio Esercito e Cavaliere di Vittorio Veneto, fiero cacciatore e socialista convinto, conosceva la follia umana e l’orrore della guerra, sapeva bene cosa succedeva alle donne che finivano tra le braccia dei soldati. E Peppino aveva una moglie che adorava ed una figlia giovanissima e bellissima, Giorgia. Quella ragazza aveva preso l’altezza da lui, lui ch’era un gigante, ed anche il portamento, aveva i suoi stessi occhi azzurri di cielo, pelle bianca di luna, capelli biondi di sole. Una perla normanna nella Sicilia degli arabi.

Gaetana, la sua giovane sposa, passava quelle calde giornate di luglio a ricamare e tessere: novella Penelope, come la regina di Itaca aspettava il ritorno del suo uomo. Suo perché lei lo aveva generato, lei lo aveva cresciuto nel suo ventre e l’aveva partorito, lei l’aveva allevato con l’amore delle mamme. Suo anche se non aveva potuto far nulla quando era arrivata la cartolina con la chiamata alle armi. Era poco più che un ragazzino!

Giovanni era nato il 12 marzo del ‘22, la chiamata era arrivata nel ‘42: vent’anni aveva! Gli avevano detto che se si fosse arruolato volontario nella Guardia di Finanza non lo avrebbero mandato al fronte, e lui l’ha fatto. S’è arruolato che non aveva ancora vent’anni e l’avevano assegnato all’aviazione: corpo snello e scattante, intelligenza sottile, istruito, carattere mansueto. Aviere ad Augusta prima e a Lonate Pozzolo poi. È da questo posto distante millemila chilometri che Giovanni scrive e li rassicura: c’è un colonnello compaesano che l’ha preso a ben volere e non lo manda nelle missioni a rischio.

Quel colonnello è Angelo Savarino, maggiore promosso a tenente colonnello sul campo, “instancabile pilota da bombardamento partecipò a numerose azioni, dimostrando in ogni circostanza fermezza, volontà e sprezzo del pericolo” sui cieli d’Etiopia. Così recita la motivazione della sua medaglia di bronzo al valor militare, una delle tante. Uomo di poche parole, chiuderà la sua carriera militare col grado di generale, anche quello conquistato sul campo, anche quello dimostrando fermezza, volontà e onore: aveva giurato fedeltà al re, non mai a Mussolini. Neanche il proiettile che aveva solcato la sua fronte l’aveva fatto desistere: gli uomini veri si assumono tutte le responsabilità dei loro giuramenti. 

Scriveva spesso di lui Giovannino ai genitori. Scriveva spesso e scriveva per non essere dimenticato. Lo diceva esplicitamente a ogni lettera: “non dimenticatevi del vostro affezionatissimo figlio Giovannino”. E poi mandava sigarette al padre in segno di rispetto, e fiori alla sorella, quella sorella bellissima alla quale riservava parole cariche d’amore e di tenerezza. Quando era stato trasferito a Napoli, all’aeroporto di Capodichino, non c'era più quel compaesano. Se a Lonate il ricordo più vivido che si lascerà sfuggire di bocca erano gli stormi d’aerei che partivano e che non tornavano che in quantità esigue, a Napoli era un’altra storia. Napoli è stata la città più bombardata d’Italia: 100 incursioni aeree.

Quest’estate ho letto un magnifico testo di Gabriella Gribaudi, Guerra Totale, ed i racconti riportati sono spaventosamente simili a quello che Giovanni raccontava al figlio: quei sibili che lui ha sentito per tutta la vita, quei fischi che precedono l’esplosione, quel terrore che ti raggelava e paralizzava il corpo e anche l’anima, fino al midollo, fino al cuore. Cento incursioni a bombardare la città, a massacrarla, a distruggerla. Cento incursioni portatrici di morte e di devastazione.

E ripenso a Giovanni, che era poco più che un ragazzo di vent’anni, cresciuto a pochi passi dal mare, nella masseria di famiglia, tirato su a racconti della grande guerra del padre e a baci della sorella. Ripenso a lui e mi commuovo a rileggere un resoconto scritto di suo pugno per difendersi dall’accusa di diserzione. Aveva solo eseguito gli ordini del suo capitano: “chi può si salvi”. E lui era scappato dall’hangar di Capodichino assediato dai tedeschi, il 9 settembre del ‘43. Lui era scappato, ma non era un vigliacco. Se c’era un disertore, ripeteva in vecchiaia, quando la malattia l’aveva fiaccato e i ricordi riaffioravano a sprazzi e con violenza, era il re, quel re malfatto e traditore della patria.

Era tornato a Modica a piedi, camminando nottetempo per evitare pattuglie tedesche e reali carabinieri.

Quando Giovanni è tornato a casa, suo padre non l’ha riconosciuto. Suo padre, Massa’ Peppino Malavita, aveva le sue donne da proteggere e quel soldato sbandato che imboccava la strada di casa non prometteva niente di buono. Peppino non era uomo da intimorirsi: era Cavaliere di Vittorio Veneto, se n’era fatta di guerra al fronte, non era certo uno sbandato che l’avrebbe fatto arretrare d’un sol passo.

È stata Lina, quella che bruciava le divise, a dare l’allarme, ad urlare a squarciagola per fermare Peppino che prendeva la mira: “È Vannino! Fermati: è Vannino! Vannino è tornato”. E se sua madre Gaetana aveva filato per tutti quei mesi aspettando il ritorno del suo personalissimo Ulisse, fu il suo cane il primo a riconoscerlo, come nella migliore delle tradizioni, come il cane Argo.

Peppino fino alla fine non aveva voluto credere a Lina: le donne talvolta sono così impressionabili! Ma al cane scodinzolante si doveva credere per forza. 

Quando Vannino è tornato a casa, suo padre non l’ha riconosciuto.

Era partito che era un bel ragazzo di neanche vent’anni, cresciuto in una masseria delle avvizzito, trascinando le sue ossa ricoperte dalla sua sola pelle, con occhi invecchiati ed un ciuffo bianco all’attaccatura dei capelli, con la morte nel cuore e il sibilo delle bombe nelle orecchie.

Giovanni Giannone Malavita non dimenticò mai che il generale Savarino non l’aveva mandato in missione salvandolo da morte pressoché certa; non dimenticò mai il sibilo delle bombe sganciate dai quadrimotore americani durante le loro incursioni; non perdonò mai i tedeschi e ancor meno perdonò quel reuccio per essere scappato come il più vile degli uomini, lasciando loro a morire come topi.

Quando Giovannino Malavita tornò a casa aveva solo 22 anni e negli occhi e nel cuore il dolore di cent’anni, lo sgomento delle bombe e delle incursioni, il terrore della morte, ed un ciuffo di capelli bianchi proprio sopra la fronte.

Di quel segno distintivo ho saputo solo pochi anni fa, quando mi sono risvegliata con un trionfale ciuffo di capelli bianchi proprio all’attaccatura dei capelli e mio padre, il mio Pippo dagli occhi profondi e bellissimi come quelli della sua mamma, non ha potuto far altro che constatare che quel ciuffo l’avevo preso da suo padre, da Don Giovannino Malavita.