La scelta di Pietro

Quando tornarono trovarono la fame nera e la devastazione totale. Nessuno ad accoglierli per strada, nessuna fascia tricolore, nessuna bandierina a sventolare. Non erano che dei derelitti, i paria dell’umanità, dimenticati dal loro Dio e dallo Stato. Non erano Partigiani a cui tributare onori prima del revisionismo più becero degli ultimi decenni; non erano prigionieri e non erano più soldati, non erano lavoratori né gli schiavi che furono.

Semplicemente non erano.



A Vezzano su Crostolo, quel paesino sperduto in cui viveva con la moglie e la figlia appena nata, Pietro Susino aveva visto le ritorsioni dei fascisti, le fucilazioni sommarie, l’accanimento sulle famiglie, sulle donne, sui bambini. Forse non sapeva che il suo tenente l’avrebbe tradito, forse non si sarebbe mai aspettato che dimenticassero che era un veterano, che con la sua motocicletta aveva accompagnato il re in persona, che aveva preso parte alle campagne d’Africa, di Jugoslavia e d’Albania. Forse non si sarebbe aspettato che i suoi stessi fratelli avrebbero dimenticato che lui aveva conquistato le medaglie e che mai aveva imbracciato il fucile contro di loro.

Forse quando venne arrestato di quelle medaglie e della sua motocicletta non si ricordava nemmeno lui, ma di certo ricordava il giuramento di fedeltà prestato a quel re che aveva accompagnato e scortato, e sicuramente ricordava che a casa c’erano sua moglie e la sua bambina nata da poco da proteggere.


Certo, si sarebbe potuto salvare, in un modo o nell’altro. Avrebbe potuto accettare di scappare insieme ai Partigiani e ritirarsi sulle montagne, tornare a combattere: in fondo è questo che fanno i militari. Però a casa c’erano Pippina sua e Michela, che era solo una bimba, e lui aveva visto le ritorsioni dei fascisti, aveva saggiato la cieca cattiveria dei nazisti. Altro che tener la casa sporca! Loro, i tedeschi, così ossessionati dalla pulizia e dall’ordine, sarebbero andate a prenderle in quella casa, nonostante le galline lasciate libere di razzolare e sporcare, non avrebbero fatto caso agli escrementi lasciati a bella posta sul pavimento, e non si sarebbero fatti il minimo scrupolo a massacrare la sua donna, ad eliminare la sua bambina, come non si fecero scrupolo a massacrarne 500 di bambini una settimana dopo tra Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto.

Oppure, il carabiniere scelto Pietro Susino, avrebbe potuto prestare nuovo giuramento al duce, indossare la camicia nera e prendere parte ai massacri dei giorni immediatamente successivi al suo arresto.

Lo ricordo bene il signor Susino, con quel volto sempre serio seppur mai austero, seduto sotto uno splendido e profumatissimo gelsomino. Cosa avrà pensato quando gli chiesero di tornare a imbracciare il fucile?

Quando suo figlio Franco mi ha raccontato di quel momento non ha lasciato trasparire alcun tentennamento. Le alternative per Franco, come per Pietro, sembravano essere soltanto due: o Partigiano o il campo di concentramento. I tedeschi, Salò, no, mai: “Io la camicia nera non la metto!” ripeteva orgoglioso.

Da quel momento, da quel 5 agosto 1944, il carabiniere scelto Pietro Susino, nato a Scicli il 1° maggio del 1910, figlio di Francesco - pluridecorato della Grande Guerra e Cavaliere di Vittorio Veneto -, coniugato con Giuseppa Trovato, Pippina sua, e papà della piccola Michela, da quel giorno dicevamo non fu che l’internato numero 2829 dello Stammlager V-A di Ludwisburg.

Quello in cui fu internato Pietro Susino era uno dei 136 Stammlager in cui vennero rinchiusi, ufficialmente Kriegsgefangenen (prigionieri di guerra), ragion per cui gli edifici del campo erano sormontate dalla scritta KG, ma gli italiani non erano “prigionieri di guerra”.

Gli italiani erano i vigliacchi che avevano tradito e per questo dovevano pagare! Un prigioniero di guerra sarebbe stato tutelato dalla Convenzione di Ginevra ed Hitler non avrebbe mai concesso un tale beneficio a quei 650.000 soldati che si erano rifiutati di passare con loro.

Pietro Susino, Giovanni Di Gabriele, Salvatore Abate, Salvatore Oddo, Orazio Giunta, Giuseppe Giannone e tutti gli altri militari di truppa ed ufficiali italiani, poco più che ragazzi, avevano rifiutato fino alla fine di combattere per Hitler e Mussolini, nonostante le condizioni disumane in cui avevano affrontato il viaggio verso quell’inferno, nonostante le botte, nonostante la fame e il freddo, loro avevano scelto di Resistere.

Le condizioni di vita nei campi erano, come sempre disumane. Tra gli “indegni di vivere” gli italiani erano secondi solo agli ebrei, ma il fatto di essere in età da militare li rendeva utili al lavoro. La necessità tedesca di manodopera e i bassissimi costi di gestione furono in realtà la salvezza per i sopravvissuti, altrimenti destinati a morte immediata. I turni di lavoro, ovviamente, erano massacranti ed il rancio poco più che irrisorio: una scodella di brodaglia di rape ed una pagnotta da 6-700 grammi da dividere in 5 o 7 persone.

E quando sono tornati, quelli che sono tornati, non hanno trovato nessuno ad attenderli, nessun corteo, nessuna fasce tricolore, nessuna bandierina per loro.

Questo Paese dalla memoria corta e dalla coscienza sporca, ha voluto scordarsi di loro, confondere vittime e carnefici, coprire tutto sotto una spessa coltre di silenzio.

Pietro fu liberato dagli americani il giorno di Pasqua, il 1° aprile 1945 ed inviato al campo di raccolta prigionieri di Heidenberg prima e a quello di Menheimm poi, successivamente a Negarzimer ed infine a quello di Ulm.

Quando Peppina Trovato in Susino quel 30 luglio 1945 vide un uomo poco più che scheletrico presentarsi in casa sua stentò a riconoscere il suo Pietro: pesava 49 Kg eppure nel cuore portava il peso di anni di dolore, di botte e della fame che le bucce di patate rubate di notte non riuscì mai a saziare.

A distanza di tanti anni non sappiamo ancora il numero esatto di IMI deceduti in prigionia, nessun dato ufficiale. Sappiamo solo che all’indomani dell’8 settembre furono disarmati e catturati 1.007.000 di militari italiani. Qualcuno riuscì a scappare subito, altri passarono a rimpolpare le fila della repubblica di Salò e circa 650.000 si rifiutarono di combattere al fianco dei tedeschi e furono quindi deportati e utilizzati come lavoratori coatti del Reich.

Un numero compreso tra i 37 e i 50 mila di loro non fece mai più ritorno a casa ucciso dalla fatica, dalla malnutrizione, dal fucile di una SS che aveva solo voglia di ammazzare un “mangiaspaghetti”.